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IL RUMORE BIANCO |
Antropocene |
Fading Records |
2016 |
ITA |
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Dopo due anni dal mini-album “Mediocrazia”, il gruppo veronese torna con le sue denunce sociali da scagliare contro il Sistema, reo soprattutto di appiattire gli individui. Il Rumore Bianco (il cui significato è stato ampiamente riportato nella precedente recensione dedicata alla band) continua ancora a proporre una musica che a tratti rimane difficile da definire, persa com’è tra le nubi grigie che ne caratterizzano il colore della confezione, una sorta rock alternativo non certo incline all’entusiasmo, testi intelligenti ma dall’esposizione verbale fin troppo complicata e un fondo di post-qualcosa che ormai viene infilato un po’ dappertutto. Per fortuna continua ad essere presente quella vena in cui scorre l’ispirazione tratta dal jazz-rock e dalla fusion, creando così un certo interesse anche tra i prog-fan. Non a caso, uno dei pezzi più riusciti è la strumentale “Tephlon (Club)”, bella sostenuta, cadenzata, dalle atmosfere non certo banali e retrò quanto basta, con il sax tenore in fase solista che ben si destreggia nella complessa ritmica dettata da tutti gli altri strumenti, capace di scorrere comunque leggera. Elemento da tenere in considerazione è l’organo Hammond di Thomas Pessina, che con il suo suono ruvido conferisce il calore necessario, come ad esempio accade anche nel break centrale di “Mediocrazia”, che però viene un po’ troppo centellinato. Le chitarre di Michele Zanotti e Giacomo Banali, in genere, anche quando suonano note soliste sembrano più che altro concentrate a crear sostanza nelle ritmiche non certo semplici, anche se nella finale “Antropocene pt. II” dimostrano di sapere il fatto loro. Ma in generale è quando lo stesso Zanotti sfodera il sassofono che la musica trae il suo maggior beneficio, come ne “Il Capitale Umano”, anche se la maggiore intensità la raggiunge “Il Giudice e il Bugiardo”, che parte quieta sulle note del pianoforte e del sax, per poi concedersi una bella sfuriata, ben sorretta dalla tecnica sicuramente jazzistica del bassista Alessandro Danzi e del batterista Andrea Sbrogiò. Detto dell’aspetto strumentale, occorre fare un discorso a parte su quello concettuale, che poi va ad influire sui testi e quindi sulle parti cantate. Già il titolo è una dichiarazione di intenti: il termine “Antropocene” è stato coniato negli anni ottanta dal biologo Eugene Stoermer, per poi essere sfruttato nel 2000 dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen nel suo testo intitolato “Benvenuti nell'Antropocene”. Un termine in cui si allude all’attuale era geologica, dove all'essere umano e alle sue attività vengono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Un concetto che affonda le radici nel passato, quando Antonio Stoppani (1873) scriveva che proprio l'attività umana rappresentava una nuova forza tellurica, senza contare il geochimico Vernadskij, che sottolineava il potere crescente della mente umana nel modellare il futuro e l'ambiente. È da tutto questo che prendono spunto le tematiche di denuncia del gruppo scaligero, creando – come già detto – liriche impegnate e non sempre ben amalgamate con la musica. L’impegno di Alessandro Zara è evidente, ma l’aspetto vocale è sicuramente quello a cui dover mettere mano per migliorare la proposta. Peraltro, spesso aleggia quell’alone di rock “alternativo e depresso” che probabilmente molti faticheranno a digerire. Nell’iniziale “Al Crepuscolo dell’Anima” poco ci manca di sentire Carmen Consoli che canta: “…confusa e felice…” con voce tipicamente sguaiata. Come obiettivo, si potrebbe puntare al risultato ottenuto con “Antropocene pt. I” o nella parte finale di “Mediocrazia”. Due momenti sporadici che potrebbero diventare la regola. Il Rumore Bianco non ha mai voluto proporre qualcosa che si rifacesse smaccatamente ai classici canoni del rock progressivo, proprio perché consci che occorre sapere andare oltre gli schemi per poter “progressivizzare” la propria musica. Una scelta coraggiosa, che di certo non fa scoccare il classico amore a prima vista. Ma questo, probabilmente, era stato messo in preventivo fin dall’inizio.
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Michele Merenda
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