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DEWA BUDJANA |
Zentuary |
Favored Nations |
2016 |
INDN |
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Dewa Budjana approda alla casa discografica di Steve Vai, chitarrista virtuoso e ricercatore per eccellenza. La pubblicazione di un album dell’artista indonesiano, quindi, risulta assolutamente emblematica. Negli ultimi anni Budjana ha pubblicato cinque album (compresa la ristampa di “Home”, lavoro del 2005) con la MoonJune Records, molto attenta agli artisti indonesiani più creativi, e in quest’ultimo lavoro vi è stata comunque una stretta collaborazione con l’etichetta di Leonardo Pavkovic. Dopo essersi recato a Praga nel 2015 con il connazionale Tohpati – altro chitarrista di estrazione jazz-rock/fusion, autore di eccellenti album sulla medesima etichetta MoonJune –, Budjana collabora con l’Orchestra Sinfonica locale e comincia ad elaborare le idee per quella che viene definita una pietra d’angolo della sua già nutrita discografia. Alla luce di quanto ascoltato, non si può dar torto a chi sostiene ciò; col passare degli anni e delle collaborazioni la musica del chitarrista asiatico è diventata sempre più “densa”, satura di atmosfere corpose che continuano comunque a guardare alla propria tradizione etnica. Una produzione di idee quasi mai stantie, anche grazie ai vari ospiti chiamati di volta in volta ad impreziosire i brani. “Zentuary” vuole essere il culmine di una carriera creativa ed al contempo il punto di partenza per rielaborare gli accadimenti di una vita, a volte anche spiacevoli, sublimandoli in musica. Una mole di materiale non indifferente: dodici composizioni che quasi mai scendono sotto la soglia dei sette minuti, andando spesso e volentieri anche oltre. Si potrebbe cogliere persino un senso di “esagerazione”, a cui si sarebbe potuto ovviare riducendo il minutaggio ed inserendo una quantità minore di elementi che per qualcuno potrebbero risultare eccessivi. Ma il fatto è che i brani rivestono un determinato significato proprio perché totalmente pregni di questo gran numero di contenuti, esattamente come la copertina: una mole di immagini che se prese una ad una sembrano non azzeccarci per niente con quella accanto; nel loro insieme, però, danno vita ad una gran bella parvenza. Il batterista cGary Husband (esperto di collaborazioni chitarristiche) è già un’ottima garanzia, che qui si destreggia benissimo anche alle tastiere e soprattutto al pianoforte; se poi al basso c’è Tony Levin, ecco che si ha a disposizione un asse ritmico che ti permette di impostare qualsiasi cosa, da un approccio maggiormente contenuto ad uno senza alcun dubbio più spigliato. L’iniziale “Dancing Tears” era già presente nel sopra citato “Home”, a suo tempo dedicato ai morti dello tsunami in Indonesia; se la prima versione era molto più vicina ai Weather Report (si ricorda che vi suonava il batterista Peter Erskin), qui il minutaggio aumenta sensibilmente e la composizione viene accresciuta grazie ad una forma mistica e complessa, con tanto di assolo elettrico distorto e graffiante a cui subito dopo ne segue uno acustico, che grazie al drumming sempre più turbinante di Husband fa compenetrare in quella che risulta come una fortissima sensazione di sconvolgente spiritualità. Tra i brani già editi c’è anche “Dedariku”, pubblicato a suo tempo sia su “Gitarku” (2000) che come live bonus track sulla ristampa dello stesso “Home”. Da quest’ultima versione viene ripreso il flauto di Saat Siah, che ricrea un’atmosfera ancora più elevata. Una nuova interpretazione che stavolta dura quasi undici minuti, nettamente migliore dell’originale; risultato ottenuto grazie alla batteria delicata e complessa dell’ospite Jack DeJohnette, alle fasi di basso di Tony Levin e ad un guitar-working elettrico, nervoso, che fa a spallate nel contesto di natura contemplativa, uscendone assolutamente vincitore. Quello che di fatto è il nono album di Budjana, viene dichiaratamente dedicato alla madre scomparsa, assieme al pezzo intitolato “Suniakala”, accompagnato dalla Czech Symphony Orchestra. Una composizione che guarda con dolorosa e cupa nostalgia, impreziosita da un assolo di chiara impronta floydiana ad opera di Guthrie Govan, mentre il musicista indonesiano si lascia andare ad una struggente parte alla chitarra acustica. Tra le situazioni negative vissute nell’ultimo periodo c’è anche il momento di incomprensione con la band GIGI, con cui Dewa suona da almeno ventidue anni, che ha ispirato “Pancaroba”. Un inizio da tipica fusion del Sud-Est asiatico, prima di diventare dura e dissonante; come sempre, grande la sezione ritmica, con Husband che come detto si conferma anche un ottimo tastierista, prima di lasciare la parola ad un assolo di chitarra in cui Budjana guarda ad Allan Holdsworth (meno pesante di quest’ultimo, però).
Ma la vita non è fatta esclusivamente di brutte sorprese: “Solas PM”, per esempio, è dedicata all’idolo Pat Metheny, che il nostro ha finalmente avuto il piacere di incontrare; il riferimento artistico è evidente, ma nonostante ciò permane la personale lettura sulle ambientazioni e sulle sei corde (si ricrea un sitar che si fonde con il resto degli strumenti), registrando ancora una volta l’eccellente prova di Gary Husband, che oltre a far “densità” con la sua tecnica tentacolare alla batteria, si dimostra novello Lyle Mays al pianoforte. Senza ovviamente dimenticare l’intervento di Danny Markovich, sassofonista e co-fondatore dei Marbin. Ma l’influenza di Metheny si fa sentire decisamente anche nella seguente “Lake Takengon”, ispirata al lago e alla capitale della zona indipendente di Aceh, nell’isola di Sumatra, flagellata dalla guerra civile e dagli interessi multinazionali. Un pezzo assolutamente ispirato che mostra vari chiaroscuri, versi onomatopeici, Jack DeJohnette irrefrenabile alla batteria, un Budjana fuori dagli schemi… E a costo di esser ripetitivi, un Gary Husband che ancora una volta si distingue sui tasti d’avorio e poi si lascia andare anche con i sintentizzatori, rifacendosi stavolta al Jordan Rudess più fusion. Le dediche sarebbero ancora tante – “Manhattan Temple”, ad esempio, è dedicata proprio a Leondardo Pavkovic –, così come lo sono le composizioni che andrebbero nominate. Ma poi sarebbe la lettura a diventare decisamente eccessiva, anche perché ci si è già spinti abbastanza oltre. Non resta che ascoltare il doppio lavoro in questione, poi riascoltarlo per coglierne le sfumature e quindi armonizzarlo. Già col precedente “Hasta karma” (2015) Budjana aveva evidenziato una determinata attitudine compositiva, che qui viene ulteriormente elaborata. Senza dubbio, tra le cose migliori del 2016.
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Michele Merenda
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