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DEWA BUDJANA |
Mahandini |
MoonJune Records |
2018 |
INDN |
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A distanza di due anni dal precedente “Zentuary”, il chitarrista indonesiano torna con un lavoro che ha il difficile compito di essere il successore di quello che probabilmente era stato fino a quel momento il suo apice artistico. In questi frangenti, si tenta spesso di creare qualcosa che si discosti da quanto fatto nell’immediato passato; se il fenomeno è assolutamente comprensibile da un punto di vista dell’espressione artistica, tra i fan può invece suscitare degli interrogativi. È quanto in effetti accade in alcuni episodi di questo suo undicesimo album, necessitando di attenta analisi. Dewa Budjana incrementa ancora di più le fila internazionali delle sue collaborazioni prestigiose, chiamando a sé il tastierista statunitense Jordan Ruddess (Dixie Dregs, Dream Theater, Liquid Tension Experiment), il batterista tedesco Marco Minnemann (The Aristocrats) e la stella nascente Mohini Dey, bassista indiana vista in azione anche con Steve Vai. A questa base stabile si aggiunge l’ospite Mike Stern, che non ha certo bisogno di presentazioni, il quale impreziosisce il potente jazz-rock di “ILW”, acronimo di Indra Lesmana Workshop (insegnante di Budjana e riferimento di tanti suoi connazionali. Nel 1983, Lesmana è stato il primo musicista indonesiano a incidere un album negli Stati Uniti). Su atmosfere indonesiane che sanno di colossal, Stern si lascia andare ai suoi soliti crescendo (l’assolo è stato però composto da Jimmy Haslip), seguito da un gran lavoro ritmico, soprattutto al basso. Subito dopo, entra il titolare dell’album con un lungo assolo che potrebbe ricordare il nume tutelare Allan Holdsworth, ma con una chitarra distorta che lo fa suonare molto più rock. Uno degli episodi migliori, a cui occorre aggiungere la title-track, che mette insieme due parole indiane - Maha (grande) e Nandini (il veicolo del dio Shiva). È lo stile più duro e libero del chitarrista asiatico, in un brano di otto minuti in cui viene data piena libertà ai musicisti presenti; occorre infatti prestare ascolto all’ottimo assolo di basso, a cui fa seguito l’assolo jazzato sui tasti d’avorio, lasciando poi spazio all’intervento delle sei corde, in cui ci si rifà anche a Steve Vai (con meno durezze e asperità zappiane). Fin qui, si ritrova quanto ci si potrebbe normalmente attendere. Ma l’album è in realtà aperto dal pianoforte malinconico di “Crowded”, brano firmato da John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, qui presente anche alla voce. Malinconia, appunto, che porta verso lidi post-grunge, soprattutto quando i toni si fanno più arrabbiati, che si cerca di miscelare con le atmosfere della parte sud dell’estremo Oriente. Messo in apertura, indubbiamente spiazza. Frusciante torna anche su “Zone”, posto invece proprio alla fine. Cantato che si muove su una base mobilissima e non facile nonostante la melodia, che ricorda nomi illustri tipo Jack Bruce (pur mantenendo le dovute proporzioni). La fusione tra culture qui appare ancora più coraggiosa ma forse meglio riuscita, con un assolo intricato di Dewa e la ricerca di un ritornello che non finisca mai in maniera scontata da parte di John, forzando forse un po’ troppo la mano. Altra collaborazione la si ritrova su “Hyang Giri”, con la cantante indonesiana Soimah Pancawati. Quello che è un vero e proprio “Anello di Fuoco”, a cui fa riferimento il titolo, si scopre essere il complesso montuoso e vulcanologico balinese (peraltro attivo) che avvolge il luogo dove vive Dewa, dominato secondo la tradizione dal dio Shiva. Il cantato acuto, che ad un primo ascolto potrebbe suonare disturbante, conferisce grande mistero ad una composizione jazz-fusion in cui i solisti – basso compreso – danno sfoggio della propria bravura. Di grande effetto le varie successioni velocissime degli strumenti, prima che torni il cantato autoctono, con un coro sacro in dissolvenza. Poi, il pianoforte apre la strada a “Jung Oman”, dedicata al padre di Dewa; il titolo fa riferimento al nomignolo con cui lo chiamavano affettuosamente familiari e amici più intimi. Qui, l’assolo principale è affidato alla chitarra acustica, mentre le fasi di apertura e chiusura – anch’esse malinconiche – vengono portate avanti dall’elettrica su note prolungate mentre il piano traccia i suoi ghirigori. “Queen Kanya” parla ancora dell’Indonesia e precisamente della regina Dewa Agung Ratu Kanya del regno Klungkung a Bali, rivestendo un ruolo importante nella diffusione della poesia. Pezzo intricato e solenne, con un sorprendente riff heavy che spunta all’improvviso e che altrettanto velocemente lascia spazio ad un fluidissimo assolo di pianoforte mentre la sezione basso/batteria dà ampia dimostrazione di bravura. Tocca poi all’assolo distorto di Dewa, per concludere con l’inedito duetto giocato dalla batteria di Minnemann e la voce scat di Dey. Il tutto, risulta alla fine un non facile connubio tra tradizioni apparentemente distanti tra loro. L’ultima frase va a rispecchiare quello che nel complesso è questa ulteriore fatica del chitarrista indonesiano, che non si ferma e continua a ricercare sempre nuove strade. Come si diceva, molte delle soluzioni qui adottate potranno spiazzare. Inoltre – e lo si ribadisce ulteriormente – la malinconia sembra pervadere l’intero lavoro. Di sicuro, il lavoro dedicato al grande mezzo che trasporta il dio Shiva va ascoltato ancora meglio di tutti gli altri, perché inizialmente potrebbe sembrare che Dewa Budjana abbia semplificato la propria proposta rispetto a quanto fatto in precedenza. Non è esattamente così; si tratta della scelta legittima che un artista fa quando decide di continuare ad esplorare e ad evolvere. L’edizione in vinile contiene anche la versione acustica del brano che dà il titolo all’album, non presente su CD, con Dimawan Krisnowo Adji al violoncello e Adrian Muhammad al vibrafono. Le tracce sono state incise da Prashant Aswani, virtuoso indiano delle sei corde dallo stile molto simile al Greg Howe più jazz-rock.
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Michele Merenda
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