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KAMA LOKA |
Kama loka |
Transubstans Records |
2013 |
SVE |
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Il Kama Loka, secondo la dottrina induista, è quel luogo fra la vita e la morte che l'anima attraversa prima di reincarnarsi ed è stato a quanto pare anche il limbo artistico in cui si trovavano il bassista Tobias Petterson ed il chitarrista Mikael Ödesjö prima di dar vita agli Agusa che prendevano forma proprio nello stesso anno di pubblicazione dell'album in esame. Questo debutto discografico, rimasto fino al momento in cui scrivo (4 anni dalla sua uscita) unico nella discografia del gruppo, rappresenta una specie di camera di fermentazione per quelle idee che ritroviamo meglio sviluppate nella nuova band di Petterson. Il folk svedese è il territorio comune alle due realtà, declinato, anche in questo caso, con una forte impronta psichedelica e con contaminazioni hard blues piuttosto sviluppate. Come a sottolineare il forte legame con il folk, il brano più lungo e significativo dell'opera è rappresentato senza dubbio da "Gånglåt Till Floalt". Il pezzo si basa su melodie della tradizione che seguono un canonico ritmo di marcia, dipinte con abbondanti dosi di Hammond (suonato dal musicista danese Søren Pilegaard Hansen) ed abbellite dal violino rustico di Snild Orre. Il brano è un trip che si espande lentamente, fatto di suoni ruvidi e spenti che ricalca benissimo sentieri già brillantemente percorsi da gruppi come Kebnekaise o Arbete Och Fritid. La veste è forse un po' più grezza ma non per questo meno piacevole, soprattutto per chi già apprezza ed è avvezzo a questo tipo di proposte. L'altro pezzo da segnalare è sicuramente "Trold i bakke", anch'esso strumentale e anch'esso intriso di vistose contaminazioni folk. Lento e ritmato, con un organo Hammond lunare sullo sfondo che ricorda molto quello di Bo Hannson ed una chitarra deliziosa che gioca variando il tema melodico portante, si espande, ipnotizzante, con ampi sprazzi di psichedelia. Meno efficaci sono i pezzi cantati, essenzialmente a causa di una voce solista, quella del danese Søren Pilegaard Hansen, stridula ed acidula, a volte corroborata da cori non meno sgraziati. Ce ne rendiamo subito conto dal pezzo di apertura, "Skovsøen", in cui viene intonata una specie di nenia che si muove su ritmiche traballanti e lente, rinforzata da cori sinistri che sembrano protagonisti di rituali pagani. La voce si fa più profonda nella successiva "Øjesten", una ballad buia e vellutata dai riflessi blues, piacevole e senza grosse pretese. In generale l'organo, suonato sempre da Søren, ha un ruolo abbastanza limitato anche se dona profondità e calore alla musica, mentre più rigogliose sono sicuramente le chitarre di Mikael Ödesjö e di Morten Aron, a volte protagoniste di generosi assoli. Aggiunge veramente poco a questa disamina il brano conclusivo, "När Lingonen Mognar", con i suoi cori stralunati e le melodie costruite su pochi elementi ripetuti all'infinito e senza troppa fantasia. Questo breve album, 33 minuti in tutto, non brilla certamente in quanto ad originalità né per virtuosismo e neanche per fantasia ma potrebbe rappresentare senza dubbio un piacevole diversivo per gli amanti del prog folk di matrice nordica, con punte più che dignitose e momenti non eccelsi ma comunque gradevoli.
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Jessica Attene
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