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AGUSA |
Högtid |
Transubstans Records |
2014 |
SVE |
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A volte tutto nasce dal caso o da un incontro fortunato, anche la musica, quella che vale la pena ascoltare. Ecco così che nell’estate del 2013, in piena campagna, in una località nei pressi di Malmö conosciuta come Agusa, Tobias Pettersson (basso), Mikael Ödesjö (chitarra), Dag Strömkvist (batteria) e Jonas Berge, col suo fiammante organo Hammond, si sono incontrati per una jam session… e la cosa ha funzionato talmente bene che il quartetto si è presto ritrovato in studio di registrazione per fissare definitivamente tutte le note che giravano loro per la testa, con grande beneficio per noi ascoltatori ovviamente. Gruppo nuovo di zecca insomma, anche se con esperienze maturate in altri ensemble, ma musica vecchia, o per meglio dire vintage. Il segreto di tutto sta nei riverberi, nelle vibrazioni e nel timbro rauco ma possente dell’organo Hammond, che immagino accoppiato fedelmente al suo Leslie, nel groove piacevole della chitarra, nella parte ritmica duttile ma energica, in una miscela di ingredienti che trova senso compiuto in terra di Svezia, con i colori del sottobosco, l’essenza di muschio selvatico e l’aria pungente anche in pieno solstizio d’estate. Ad essenze psichedeliche che stordiscono piacevolmente, all’interazione complessa ed estatica degli strumenti, che non lesinano assoli e fughe, si innestano retaggi folk che ci rimandano direttamente ai più famosi Kebnekaise, ma anche alle interpretazioni piene di classe della regina dell’organo Hammond Merit Hemmingson, o ai fumi sballanti dei Grovjobb. I tempi sono volutamente dilatati: quarantaquattro minuti in soli cinque pezzi strumentali, con appena una gocciolina di cantato. Per ampliare le proprie percezioni non bisogna andare di fretta e una certa ripetitività di fondo di certo aiuta. E la musica va avanti così, in tanti loop, in mille cerchi concentrici, di scenario in scenario, progressivamente ma in modo spedito, senza intoppi o incertezze. L’essenza del folk si respira da subito con “Uti Vår Hage”, la traccia di apertura. Qui l’organo, molto soffuso, sembra intonare un’aria tradizionale in modo distratto, quando gli altri strumenti piombano nello spartito, pesanti come un tuono, sviluppando in modo cadenzato le melodie, che finiscono col perdersi fra i fumi inebrianti della psichedelia. Ecco poi che la musica prende il volo in un’estasi di assoli e sembra quasi di ascoltare Bo Hansson, all’epoca delle sue scorribande con Janne Carlsson: stesso groove, stesse impronte hard blues, feeling molto simile, con gli impasti sonori densi ed incandescenti. Il folk allegro e ritmato di “Melodi Från St Knut” sembra fuoriuscito direttamente da un libro di fiabe sonore della Hemmingson. I suoni sono incantevoli e vintage, piacevolmente sfumati, con una bella interazione fra la chitarra, che possiamo ascoltare anche in veste acustica, e l’onnipresente Hammond. I quattordici minuti di “Östan Om Sol, Västan Om Måne” sembrano fatti quasi per starsene lì, fra le nuvole, con la musica che si fonde con i pensieri che ci passano a caso per la testa. Le oscure parti vocali prive di parole sembrano quasi effetto di qualche pratica di meditazione orientale mentre le melodie appaiono, almeno all’inizio, quasi indefinite. Il brano è fatto di diversi momenti che si sviluppano in lunghe spirali, come una danza da ballare in cerchio, sguardo verso il cielo ed equilibrio messo alla prova dalla rotazione continua… e tutto potrebbe anche durare all’infinito. “Stigen Genom Skogen” si apre invece come una sorta di marcia lenta e oscura, imbibita di aria umida di pioggia. La batteria scolpisce con decisione il ritmo e l’organo è rabbioso e graffiante. Gli intrecci strumentali, davvero notevoli, si infittiscono via via e anche la velocità cresce lentamente ma in modo continuo e vertiginoso, spegnendosi infine in un breve e lento finale. Se il gruppo accenna in questo brano ad un canto a più voci, sembra quasi che lo faccia per lanciare una sorta di incantesimo. Dei tre minuti di “Kärlek Från Agusa” mi piace infine ricordare le belle rielaborazioni di tematiche folk, espresse con duttilità ed energia. Non trovo molto altro da aggiungere a parte il fatto che gli Agusa ci hanno lasciano un’opera dall’impatto gradevole, imbibita di hard, blues, folk e psichedelia, bella ed in fin dei conti priva di grosse sorprese. Un album che sarebbe potuto essere un classico minore del passato e che non dispiacerà affatto agli estimatori della nuova ondata del Prog svedese, quella fatta di suoni brumosi e poco levigati e che nasce in sottoboschi freddi e privi di fiori.
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Jessica Attene
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