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MAGIC BUS |
Phillip the egg |
Back To The Garden Records |
2017 |
UK |
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I Magic Bus erano autobus che, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, trasportavano a prezzi modici gli hippies in lunghi viaggi che collegavano per lo più Londra all’India. Ecco, la rotta potrebbe essere proprio questa, come possiamo immaginare dal carattere utilizzato per scrivere i titoli delle canzoni ed il logo stesso della band in copertina che ricorda sfacciatamente l’alfabeto indiano. Anche l’epoca del viaggio potrebbe essere benissimo quella degli storici e gloriosi autobus, dal momento che questo album, così come i precedenti due, del resto, è inzuppato all’inverosimile di psichedelia ed aromi vintage. I passeggeri sono sempre gli stessi, fatta eccezione per il batterista e per il bassista sostituiti dai nuovi arrivati Will Mellorz e Connor Spring. Il duo di punta è come al solito rappresentato dall’ex Kula Shaker Jay Darlington (tastiere) e dal cantante e chitarrista Paul Evans, entrambi autori della quasi totalità della musica che riempie i 45 minuti di questo album. A completare la formazione ho il piacere di ricordare anche i nomi di Viv Goodwin-Darke al flauto e del chitarrista Terence Waldstadt, entrambi importanti nell’economia di brani coloratissimi ed inebrianti. Avevo già ricordato nella recensione del precedente disco, “Transmission from Sogmore’s Garden” (2014), che Darlington è originario proprio del Kent, culla del Canterbury e punto di riferimento inconfondibile per i Magic Bus, e avevo anche fatto notare quanto la voce di Paul ricordasse incredibilmente quella di Pye Hastings. Ebbene, quanto osservato rimane a tutti gli effetti valido ed un brano come “Mystical Mountain”, che ci viene offerto subito in apertura come inconfondibile biglietto da visita, ci catapulta immediatamente in lande grigio rosa molto care ai Caravan. Con il suo brio e la sua spensieratezza la musica scorre leggera, rievocando tutta la magia di atmosfere passate, in un viaggio piacevole che si apre su diversi scenari con ampi momenti meditativi cui seguono parti più elettriche e tastiere dalle colorazioni vintage in ogni dove. “Fading Light” segue fluido, lento e serpeggiante, con la sua limpida chitarra Cameliana che si distende lungo scenari soft e felpati. Abbiamo già capito che questa nuova prova, seppure di buon livello, ha forse meno verve rispetto al disco precedente e “Trail to Canaa” giunge presto a confermarlo. Si tratta di una ballad buia e lisergica, impreziosita dalla chitarra arpeggiata, dal flauto e da tastiere dai suoni anticati, con tanto di Mellotron. Le commistioni elettriche ed acustiche sono molto suggestive e anche grazie alle vaghe tracce di folk mi pare talvolta di sentire qualche assonanza con i Circulus come anche con i Comus. Il finale in crescendo, solcato da lunghi assoli che prendono il largo, potenzia molto questo brano dalle mille suggestioni. ”Zeta” emana profumazioni mediorientali e brilla per le preziose interazioni fra Rhodes, Mellotron e chitarra elettrica. Più interessante si rivela “Distant Future” che già dal primo minuto si presenta più movimentato, facendoci sperimentare più cambi di paesaggio con rigogliose aperture sinfoniche dal retrogusto orientale. Ecco poi che si prosegue in modo più rilassato con ritmi morbidi e tonalità basse con suggestioni a metà fra i Gong e gli amati Caravan. Il sopraggiungere di cori che ricordano quelli dei Beatles è come spalancare la finestra al caldo sole del mattino. Una maggiore ruvidità la sperimentiamo in “Kepler 22b”, una mini suite che vede l’alternarsi di fasi più rilassate a momenti di tensione, con riff scanditi ed impasti hard blues e psichedelici. “Kalamazoo” è un fragile e breve intermezzo che presenta qualche eco di musica indiana che si fa sentire anche nel pezzo di chiusura, “Yantra Tunnels”. E’ così insomma che il nostro bus, partendo dal Kent, è ormai giunto da qualche parte sulle rive del Gange, girovagando lungo sentieri tortuosi a volte dalle pendenze dolci e altre volte più avventurosi e dall’impatto live. In linea generale più scorre l’album più l’impressione è quella di un’opera poco costruita e lasciata in preda a istinti e sensazioni del momento. A prevalere sono i momenti rilassati, talvolta ascetici e forse talvolta poveri di groove. Non posso nascondere che le mie personali preferenze pendono verso l’ottimo “Transmission from Sogmore’s Garden” ma non posso allo stesso tempo negare il mio piacere nell’ascoltare un album ricco di tonalità vintage, con belle parti di organo, Rhodes e Mellotron, con assoli ben rappresentati, seppure nient’affatto aggressivi, anche sul versante chitarristico. Viaggio che consiglio a conti fatti in attesa di staccare il prossimo biglietto per chissà dove.
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Jessica Attene
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