|
La ormai ultratrentennale carriera musicale dei Galahad è costellata di album buoni e meno buoni, ovviamente, con momenti della loro carriera in cui le cose paiono arrestarsi (ricordo la lunga attesa per la pubblicazione di “Sleepers”, negli anni ’90) e improvvise accelerazioni. La band può rimanere alcuni anni in animazione sospesa per poi pubblicare a pochi mesi di distanza due album, come nel 2012. Da allora i Galahad se ne sono stati silenti per pubblicare quest’anno il presente “Quiet Storms” ed essere già pronti a rilasciare un nuovo lavoro. “Quiet Storms” si presenta per molti versi come un album interlocutorio, che non dà seguito né al new Prog tipico della band né alle tentazioni heavy inaugurate con “Empires Never Last”, album che ha ottenuto buoni consensi; esso rappresenta in effetti quasi una sorta di pausa di riflessione, alla stregua dell’album acustico che venne realizzato nell’attesa che si sbloccasse la situazione del succitato “Sleepers”. Questo lungo album, pur non essendo prettamente acustico, è realizzato e suonato quasi in punta di piedi, con sonorità calme e riflessive e atmosfere melliflue, abbastanza inusuali per chi conosce i Galahad. Si tratta di un album di transizione non solo dal punto di vista stilistico ma anche perché contiene anche alcuni brani pubblicati su EP o come bonus, oltre ad un paio di cover. Tra queste ultime segnalo quella di “Mein Herz Brennt” dei Rammstein, ripresa nella sua versione per piano e cantata ovviamente in tedesco. “Quiet Storms” non è comunque un album povero di suoni; le canzoni hanno orchestrazioni complete e talvolta complesse e la presenza di alcuni ospiti arricchisce la miscela sonora. Oltre a Christina Booth (dei Magenta) presente in un brano e a Karl Groom (Threshold, Shadowland) che offre i suoi servigi alle chitarre, ci sono Sarah Bolter ai fiati e Louise Curtis al violino. Nell’ultima traccia è possibile ascoltare il contributo al basso del compianto Neil Pepper, scomparso nel 2011. Il cantato di Stu Nicholson, dal canto suo, in questo album ci fa ascoltare al meglio il proprio lato melodico, con sporadici innalzamenti dei toni. L’album ci tiene compagnia per ben 75 minuti, a mio parere ben spesi. Alcuni episodi sono davvero deliziosi e quasi sorprendenti per chi conosce i Galahad solo come paladini del new Prog, mettendo in mostra il loro volto più delicato e gentile. Un lavoro patchwork, come si diceva, ma da non sottovalutare.
|