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CLOUDS CAN |
Leave |
Progressive Promotion Records |
2017 |
GER |
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Dietro il monicker Clouds Can si celano i polistrumentisti e cantanti tedeschi Domink Hütterman e t (quest’ultimo lo conosciamo già per la sua carriera solista che va avanti già dal 2002, nonché per i suoi trascorsi con gli Scyhte, con il suo nome vero di Thomas Thielen). I due si conoscono da oltre venti anni e negli anni ’90 avevano autoprodotto due album passati inosservati. Si ripresentano insieme nel 2017 proponendo questo disco che esibisce diverse sfaccettature. Se già gli album di t mostravano svariate influenze, che partivano dai gloriosi seventies, ma che spaziavano anche nelle decadi successive, evidenziando un certo interesse verso la musica di Marillion e Porcupine Tree, “Leave” sembra partire da questa stessa scia per spingersi ancora più avanti, al punto da poter vedere nello Steven Wilson recente il nome tutelare. “The dream of me”, che apre l’album, è esplicativa in tal senso, mostrando tempi composti ed un sound abbastanza potente, ma al contempo portando attenzione alle melodie vocali, immediate e caratterizzate da quel timbro di t che non è così distante da quello di Steve Hogarth. L’album è però molto variegato, proprio un po’ come gli ultimi di Wilson. Così, già la seconda traccia “All we are I am not” parte con lievi tocchi elettronici e la voce filtrata, che sembra provenire in lontananza. Passa poco più di un minuto e il suono si fa limpido, mentre il brano prosegue in un saliscendi che prevede un pop-prog debitore dei Marillion, slanci più robusti e riprese delle atmosfere iniziali. Si prosegue con nuovi rimandi ai Marillion, hogarthiani con “Life is strange”, uno dei picchi dell’album, con la sua partenza pop e delle dinamiche sorprendenti che portano da momenti sussurrati ed acustici a splendide deflagrazioni strumentali. Altro picco del disco è “On the day you leave”, che per oltre tre minuti si presenta come una malinconica ballata per piano e voce, condita da un sottofondo orchestrale e che poi si impenna con un trascinante e solenne crescendo di intensità. Dopo le prime quattro tracce sembra che “Leave” sia decollato e ci si aspetta che mantenga standard elevati. La seconda metà dell’album, invece, non mantiene queste aspettative ed appare più sconclusionata. Se “Like an angel” è un tassello melodico che appare come uno strano ibrido tra Marillion e Cure anni ’90, ecco che dapprima “A change of heart” strizza vagamente l’occhio ai Radiohead senza convincere troppo e poi “Insomnia” si orienta verso sonorità pesanti ed opprimenti con variazioni di tempo e di atmosfera piuttosto confusionarie. “Always forever” chiude abbastanza bene il cd con un ritorno alle influenze targate Marillion e Wilson. Dopo attenti ascolti sembra che “Leave” in sostanza segua impressioni non dissimili da quelle date dagli ultimi lavori di Wilson: buona musica, buone intuizioni, soprattutto quando prevale un’atmosfera intimista e malinconica, ma anche una palese voglia di mettere troppa carne al fuoco, con qualche passaggio a vuoto e senza riuscire a dare unitarietà all’album. Che resta anche piacevole all’ascolto (a tratti molto piacevole), ma ben lontano, per qualità, dalle migliori produzioni che girano in ambito prog. Difficile dire che impatto possa avere sugli appassionati. Qualcuno potrebbe anche esaltarsi per gli sviluppi imprevedibili delle composizioni e per la cura molto professionale del prodotto, ma il dubbio che altri progster rimangano all’asciutto di emozioni resta.
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Peppe Di Spirito
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