|
Parlare dell’ottavo album in studio dei Flor De Loto mi impone di partire dal passato, guardandolo con inevitabile nostalgia. Era il 2005 quando venne pubblicato il primo splendido album, omonimo, di questo gruppo dal Perù, disco che catturava inevitabilmente l’attenzione in prima istanza per la particolare provenienza del gruppo, ma anche e, a conti fatti, soprattutto per le sue qualità: un delizioso Prog sinfonico con largo utilizzo di strumenti a fiato, sia standard che etnici, le tastiere erano praticamente assenti ma sinceramente non se ne sentiva più di tanto il bisogno, tanto era gentile e graziosa già così la musica proposta. I due o 3 album successivi, più o meno, mantennero gli standard e le caratteristiche di quell’esordio anche se si avvertiva che qualcosa stava lentamente cambiando. Innanzi tutto, dal terzo lavoro in poi, il gruppo non ha mai mantenuto per due album di seguito la stessa formazione. La presenza costante di Alonso Herrera (chitarra e voce) e Alejandro Jarrín (basso) vedeva il rutilante alternarsi, accanto a loro, di musicisti sempre diversi. Inoltre la musica stava andando via via indurendosi per fare poi definitivamente il suo ingresso nel filone folk-metal, sempre con utilizzo di fiati di vario tipo, con l’ingresso anche delle tastiere, ma soprattutto con una ritmica e delle tonalità che si facevano decisamente frenetiche e spesso anche decisamente heavy. Questo nuovo lavoro, alla voce fiati, vede l’ingresso nel gruppo di Sergio ‘Checho’ Cuadros col suo flauto andino (quena); alle tastiere stavolta c’è Gabriel Iwasaki mentre le pelli vengono percosse in modo indiavolato da Alvaro Escobar, già presente lui anche nei precedenti due album. In questa formazione non c’è, a differenza dei lavori passati, un secondo chitarrista, lasciando a Herrera l’uso esclusivo dello strumento. Il disco inizia con una sorta di medley di due cover, brano che il gruppo propone dal vivo già da un po’, ovvero “El Condor Pasa”, brano tradizionale peruviano ripreso negli anni da numerosi artisti internazionali, cui va a legarsi “Locomotive”, versione personalizzata di “Locomotive Breath”. Questo medley viene riproposto anche in chiusura in una versione dal vivo eseguita al RoSFEST. Dopo questo avvio inizia l’album vero e proprio. Il folk-Prog-metal del gruppo è di qualità, non fraintendete i miei rimpianti d’inizio articolo. Se prendiamo la band di quest’album (e dei 3-4 precedenti) per quello che è, non per quello che un tempo era, possiamo senza dubbio goderci queste 9 canzoni energiche, ben suonate, sempre caratterizzate da parti di flauto, e comunque non prive di momenti di pausa in cui le atmosfere si aprono momentaneamente. Passiamo quindi spesso da atmosfere alla Iron Maiden o Symphony X a qualcosa di più simile ai Camel. Non è negativo e il risultato non è da sottovalutare, alla fine se non si hanno idiosincrasie per sonorità pesanti possiamo decisamente apprezzare questo che, a conti fatti, è comunque un bel disco.
|