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GABRIELE BELLINI 2018 - D.C. (Definitive collection) Qua’Rock Records 2018 ITA

Chitarrista pistoiese che ha esordito da solista nel 2006 e che ha preso parte ad altre realtà musicali nazionali come Hyaena o Pulse-R, con varie compagini Gabriele Bellini è a sua volta arrivato finalista a competizioni importanti come "Arezzo Wave", "Premio Ciampi" e vinto il Concorso Nazionale ARCI "Anacrumba". Ha anche composto brani per Raitrade -Videoradio, poi pubblicati sulla compilation "Ethno electric & ambient". Come se non bastasse, il compositore toscano si fa direttore artistico di iniziative volte a pubblicare musicisti cosiddetti “sotterranei”, cioè quegli autori o gruppi sconosciuti che vanno oltre lo standard dei generi. Crea le sue etichette discografiche (tra cui vi è quella che si può leggere in testa alla recensione) e continua a comporre album a proprio nome. Quello in oggetto è in realtà una raccolta, da intendere come un vero e proprio viaggio all’interno della carriera solista. Non è quindi un caso che si cominci proprio con l’unico brano inedito, “The Journey Begins”, che come da titolo dà inizio al viaggio stesso. Caratterizzato da un’apertura sognante e acustica, risulta essere una composizione che segue lo stile di Joe Satriani, soprattutto quello successivo all’album omonimo del 1995, che era caratterizzato da sonorità molto più dirette e blueseggianti, a cui sarebbero per l’appunto seguiti album differenti, dall’alone maggiormente “spirituale”.
I brani sono addirittura diciannove (in alcune versioni ridotti a diciassette), per oltre un’ora di musica, tutti caratterizzati da un suono molto pulito e a volte eccessivamente cristallino. Peraltro, il chitarrista cura anche le parti di basso e buona parte dei vari campionamenti, affidandosi quindi a pochissime collaborazioni esterne. Da quel che si può sentire, comunque, Bellini rende molto di più nelle lunghe fasi acustiche, per lo più estrapolate dall’album “Acoustic spaces” (2015). Tra queste vi è la successiva “Terraforming”, per l’appunto acustica, con percussioni campionate elettronicamente ma comunque efficaci, creando un misto di fusion e world music. In questo genere di composizioni occorre segnalare il gran lavoro su più chitarre – a suo modo sperimentale – di “Order ‘n’ Disorder” (assente su alcune copertine…), oltre alle altre sovrapposizioni di “Relativity”, davvero molto briose e accattivanti. Ci sono però tracce concettualmente ancora più impegnative, tipo “Primitive”, musica da colonna sonora che fa pensare ad una pellicola ambientata negli immensi boschi del nord-America, con assolo conclusivo velocissimo sulle sei corde acustiche. E poi c’è “Out now the miracle”, shredding con passaggi alternati sia sulle corde acustiche che su quelle di basso, dove il concetto di colonna sonora guarda all’ampiezza del colossal. Continuando a saltare da un pezzo all’altro, “Albatros” esprime sensazione di libertà, da intendere nel senso più spirituale del termine, alternando una parte più pacata a un’altra che va montando sempre di più in chiave elettrica; quando tutto sembra concluso, il viaggio viene accompagnato dal suono di una viola in lontananza. Su “'De Revolutionibus Orbium Caelestium”, dopo dei cori solenni, sembra quasi di sentire il primo Ron Thal che si diverte sull’acustica, prima che il pezzo vada prendendo forma e gli strumenti ad arco suonino l’apripista per qualcosa che dischiude sentieri percorsi a velocità spericolata sulle sei corde (anche stavolta prevalentemente acustiche). Bizzarra è “Fenomeno”, che dopo un inizio flamenco prevede una parte cantata da ribelle adolescenziale che ricorda l’andamento della sigla del vecchio cartone animato “Rocky Joe”. A parte la puerilità dei testi, qui ci sono comunque alcuni assoli davvero notevoli.
Entrando invece nel settore più elettrico, occorre ascoltare “Hyperman”, molto simile allo Steve Vai di “Real illusions: reflections” (2005) e in particolar modo del brano “Building the Church”, con assoli distorti, fluidissimi e la sensazione di un disastro imminente come l’incendio con relativo crollo di un palazzo. “No More Worlds” è cantato da Mario Candido, pezzo senza dubbio più heavy, una sorta di speed metal in stile vecchi Racer X, con alcuni immancabili intermezzi acustici, mentre “Endangered” presenta ritmiche thrash, forse addirittura nu-metal, a cui si inframezzano assoli più melodici ed esotici. Peggior pezzo in assoluto: “Resta poco da dire” (un nome… una garanzia!).
I titoli però non finiscono certo qua, ma si rischierebbe davvero di annoiare. Il consiglio, quindi, è di non sorbirsi la raccolta tutta in una volta e procedere pian piano. Magari, dopo, verrà voglia di scoprire gli album originali e potrebbe davvero valerne la pena.



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Michele Merenda

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