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M-OPUS |
Origins |
Rude Chord Recordings |
2020 |
IRL |
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Già da prima della pubblicazione del suo primo album, nel 2015, questo duo irlandese aveva già iniziato a lavorare sul secondo album, con un progetto ambizioso che ha portato cinque anni dopo all’uscita di questo lungo concept album, ripartito su doppio CD per un totale di quasi 2 ore e mezza di musica. Il duo, formato dal polistrumentista Jonathan Casey e del chitarrista Colin Sullivan, è nel frattempo divenuto un trio con l’inserimento in pianta stabile del batterista Mark Grist che già aveva partecipato all’album precedente. Numerosi gli ospiti presenti ma quasi tutti impegnati a dar voce ai personaggi che spesso animano gli intermezzi tra un brano e l’altro con situazioni narrate o dialoghi. Mentre l’album precedente era stato concepito con la finzione e la pretesa di essere stato scritto e ambientato nel 1975, “Origins” risale, per così dire, al 1978, utilizzando strumentazioni e tecniche che erano disponibili in quell’anno. L’album è costituito, come detto, da una lunga storia, una sorta di thriller futuristico, che si dipana attraverso 28 tracce solo una delle quali (la conclusiva) va oltre una durata normale, estendendosi per quasi 24 minuti. La differenza strutturale con l’album d’esordio è evidente, essendo quello formato da 3 lunghe tracce; i brani sono inoltre tutti legati l’uno all’altro, soprattutto con i dialoghi e gli intermezzi narrativi che sono funzionali allo sviluppo della storia. L’impegnativo ascolto di questi due CD ci dicono innanzi tutto che le incertezze e le ingenuità che costellavano il pur buono lavoro d’esordio sono state decisamente superate. L’album ha una consistenza artistica decisamente professionale, una compattezza che pur si dipana attraverso le mille variazioni umore e di situazioni che assecondano lo sviluppo della storia che viene narrata. Come contraltare possiamo forse notare come l’ingenuità e l’innocenza degli esordi siano adesso stati spazzati via in favore, appunto, di un lavoro quasi patinato e con escursioni stilistiche che talvolta ci portano in territori non proprio adiacenti al Progressive Rock. Tutto è funzionale alle molte sfumature ed umori del concept ovviamente e possiamo comunque dire he il risultato è piuttosto soddisfacente, anche se non tutto si lascia ascoltare senza storcere un po’ la bocca. I molti intermezzi narrativi o infarciti di dialoghi tra i vari personaggi contribuiscono allo sviluppo della storia ma è innegabile che alla lunga possano risultare un po’ pesanti… e in qualche caso anche esasperanti. Da un punto di vista più strettamente musicale, benché ci siano anche notevoli differenze stilistiche tra le varie canzoni, è anche comunque difficile isolarne alcune rispetto ad altre, costituendo esse una sorta di continuum logico e sequenziale. L’ultima lunghissima traccia, che inevitabilmente rappresenta il culmine dell’intero lavoro, si distingue ad esempio anche perché la sua durata comporta l’assenza per molti minuti dei dialoghi che vengono piazzati tra una traccia e l’altra. I brani più prettamente vicini al Prog sinfonico sono decisamente pochi: forse l’album risente (nei connotati che gli sono stati assegnati dai compositori) del riflusso che, nel 1978, aveva fatto abbandonare molte sonorità ed atmosfere Prog, diluite in una musica più al passo coi tempi. Il risultato, come dicevo, è comunque abbastanza soddisfacente; si tratta di un lavoro decisamente eclettico e proiettato a guadagnarsi apprezzamenti da parte del gotha della critica Prog Rock internazionale ma, nonostante questo mi provochi spesso delle piccole crisi di rigetto, bisogna anche ammettere che è piuttosto divertente e, tutto sommato (malgrado le perplessità sopra evidenziate), abbastanza scorrevole l’ascolto di questo mastodontico lavoro.
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Alberto Nucci
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