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SUBSIGNAL |
A song for the homeless - Live in Rüsselsheim 2019 |
Gentle Art Of Music |
2020 |
GER |
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C’erano una volta i Sieges Even, band tedesca che dopo alcuni demo esordì con un techno-trash decisamente evoluto. Poi – grazie anche all’innesto via via di (finalmente) validi cantanti – lo stile di partenza si sarebbe evoluto in un prog-metal che non puntava sulla spettacolarizzazione e che, pur nella sua non semplice fruibilità, si poneva nel genere in questione come la vera e propria strada alternativa a tutti i cloni generati dal fenomeno Dream Theater. Sette album, che hanno visto anche sostanziali avvicendamenti; per un periodo anche quello del chitarrista fondatore Markus Steffen, assieme all’altro “dimissionario”, il cantante Arno Menses. Nel 1997 il gruppo madre avrebbe pubblicato l’ottimo “Uneven” con line-up rinnovata, in cui vi era sempre l’eccezionale sezione ritmica formata dai fratelli Holzwart. Nuova reunion nel 2005, altri due gran bei lavori, ma nel 2008. Markus Steffen e Arno Menses formano i Subsignal, mentre i fratelli Holzwarth danno vita ai Brutal Godz con Uwe Lulis e Charly Steinhauer. Rimanendo ai Subsignal, si può parlare di un neo-prog sicuramente ben suonato (non potrebbe certo essere altrimenti), che a tratti tende verso il prog-metal… e a quel punto non si può non pensare alla vecchia compagine. Sei gli album pubblicati dal 2009 al 2018, con questo live a Rüsselsheim che ne fa un discreto resoconto. In apertura è posta “Touchestones”, dall’album omonimo del 2011, il cui inizio atmosferico quasi da colonna sonora è spezzato da timbriche dure, solenni e congestionate, per l’appunto sulla falsa riga dei Sieges Even. Sensazione ancora più evidente ascoltando i controtempi che seguono l’intricato assolo di tastiere ad opera di Markus Maichel. Dal canto loro, il bassista Ralf Schwager ed il batterista Dirk Brand non saranno i fratelli Holzwarth, ma garantiscono sicuramente un apporto adeguato in tutte le varie esigenze ritmiche che si vanno man mano presentando. È il caso dell’immediatamente successiva “Ashes of Summer”, unico estratto da “The beacons of somewhere sometime” (2013), che sembra continuare a pestare duro ma che nei ritornelli melodici e negli intermezzi strumentali è chiaramente neo-prog. Bravo Arno Menses a dar colore con acuti mai inappropriati, ben supportato dai cori. La fase accattivante prosegue con “The Bells of Lyonesse” dall’ultimo “La muerta” (2018), ancora con Menses sugli scudi. Dal primissimo “Beautiful & monstrous” del 2009 vengono riproposte “The Sea” e “Walking with Ghosts”, entrambe ammantate da un’aura particolare. Nel primo caso fa la differenza il lavoro di batteria con gli arpeggi ed effetti di chitarra, a cui seguono fasi di basso pulsante e poi l’assolo creativo (seppur non molto lungo) di Markus Steffen, senza dimenticare il solito Menses nel finale; nel secondo pezzo citato, invece, c’è quasi un’atmosfera da zona nebbiosa, caratterizzata da improvvise dissonanze e controtempi che all’epoca stavano ancora a sancire la prossimità verso un passato abbastanza recente. Si riprende a riproporre l’ultimo album, suonando in sequenza “Even Though the Stars Don't Shine”, “The Passage” e la title-track. “Even…” ha quasi il sapore di un brano anni ’80, senza però quella pesante coltre effettata e sterile tipica del periodo, in questo caso sicuramente più solare. Il pezzo successivo pare ancora viaggiare con la spensieratezza, intramezzato però da un gran assolo ai tasti d’avorio e poi concluso da un altro di batteria. “La muerta” continua in stile neo, stavolta però la parte del leone a livello solista la fa Steffen. Tra i brani finali, ci sono da menzionare la title-track di “Paraíso” (2013) – dura e ritmicamente intricata, ma con ritornelli da stadio in visibilio, grazie al mattatore Menses – e la conclusiva “Paradigm” di nuovo dal loro esordio discografico. Un pezzo abbastanza tosto, con partiture tra una strofa e l’altra che sanno tanto di viaggio nella tempesta, ma che non rinuncia mai ai ritornelli scaltri e in cui Steffen si lascia piacevolmente andare. La musica e i suoni risultano perfettamente equilibrati e tutta la band suona in maniera assolutamente organica, con il più volte citato Arno Menses che canta libero e aggiunge valore alla proposta. Oltre ai suoi acuti, occorre parlare nuovamente dei cori, basi su cui lo stesso vocalist può spaziare e volare alto. Si pone il dubbio se vi siano stati o meno dei ritocchi significativi in studio… Comunque, per gli amanti del neo-prog che tende alla durezza pur senza andare a ritmi eccessivamente veloci, questo sarà un piacevole ascolto. Probabilmente, per tutti gli altri, alla lunga potrebbe stancare, soprattutto se usufruito tutto di un fiato. L’album è dedicato alla memoria di Tiziana Flavioni e Teun Menses, quest’ultimo deceduto proprio nel 2020.
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Michele Merenda
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