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OZONE PARK |
Planetarium |
HC Group |
2020 |
ITA |
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Nuovo album per gli Ozone Park, a distanza di tre anni da “Fusion rebirth” e dalla dichiarazione d’intenti inserita nel titolo dell’esordio. A ben vedere, la rinascita della fusion (qualunque cosa significhi il termine dal punto di vista musicale) era stata incompleta, sospesa tra il suono degli anni ’70 e le tentazioni progressive disseminate abbondantemente lungo i brani. In realtà, all’epoca della recensione precedente le cose erano già cambiate, con il quartetto ridotto a trio e la conseguente necessità di dover riarrangiare i brani per le esibizioni dal vivo facendo a meno dei fiati. Possiamo dire che la transizione si stata completata con questo nuovo lavoro, senza sconvolgimenti epocali ad un sound in bilico tra la maturità e la ricerca ma con una direzione più chiara e un’intenzione che questa volta non fa leva sul titolo ma solo sulla musica. “Planetarium” è un disco di progressive, non sinfonico e non ispirato sfacciatamente a modelli consolidati. Ovviamente, il sound generale ricade ancora in quella vasta categoria di progressive-rock-jazz-fusion strumentale solitamente di difficile inquadramento ma apprezzata da tanti appassionati. Ed è qui che gli Ozone Park piazzano la prima novità, inserendo un paio di brani cantati (dal tastierista Giuseppe Chironi, assistito per l’occasione dal vocoder) che ben si adattano all’attitudine autoironica e goliardica mostrata durante le esibizioni dal vivo. “Bingo Vegas” è un nonsense vocale adagiato su un tappeto jazz-rock rilassato, con un bell’assolo di synth e una coda ancor più liricamente folle, mentre “Pianeta 9” (indicata come bonus track) si discosta dalle tematiche musicali del disco, pur mantenendo quelle vocali, per ricordare addirittura il Franco Battiato degli anni ’80. Il nuovo stile degli Ozone Park è ben rappresentato dalle due parti di “Shuttle A440Hz”, gustoso viaggio trainato dalla sezione ritmica, con un suono di basso sfacciatamente vintage e con parti di tastiere e assoli dai suoni richiamanti gli anni ’70, soprattutto nella seconda parte. “Kosmos” gioca ancora a ricordare atmosfere datate, basandosi su suoni di archi, organo e piano, mentre “Ozone planet”, “Rockambolaction” e “Nebula” recuperano in parte ed in veste aggiornata lo stile del precedente lavoro, con arrangiamenti virati verso funk e fusion e le percussioni di Gianluca Cossu che ritornano protagoniste. Considero “Planetarium” un passo avanti rispetto al pur valido “Fusion rebirth”. Il disco si lascia ascoltare con piacere e senza alcuna fatica, con una scrittura caratterizzante ogni brano in modo da evitare l’effetto “jam”. Le melodie entrano in testa facilmente, pur non essendo scontate, e ad un ascolto attento ogni traccia rivela una certa complessità compositiva ed esecutiva che si sposa bene con l’evidente atmosfera scanzonata. Insomma, il trio sardo ha fatto centro, e si spera che riesca a proseguire su questa strada e a mantenere ancora la promessa di tanti dischi in programma fatta qualche anno fa.
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Nicola Sulas
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