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DANIELE SOLLO |
Order and disOrder |
M.P. Records |
2020 |
ITA |
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Eccolo qua l’esordio di Daniele Sollo, bassista partenopeo che ha collaborato – tra gli altri – anche con Fabio Zuffanti in uno dei progetti più famosi di quest’ultimo, gli Höstsonaten, precisamente su “Symphony n.1: Cupid and Psyche” (2016). Senza poi contare i lavori con ulteriori personaggi a loro volta connessi in un modo o nell’altro con la figura dello stesso Zuffanti, tipo i tastieristi Luca Scherani e Stefano Agnini, anche qui presenti. Ma su questo lavoro compaiono anche Alessandro Corvaglia dietro al microfono (dai rinnovati Delirium e dalla Maschera di Cera, quindi sempre a Zuffanti torniamo…) e soprattutto Domenico Cataldo alle sei corde, il quale cura gli arrangiamenti assieme al titolare del progetto, dimostrando un’ottima tecnica esecutiva. Oramai in sede di recensioni si è già detto e ridetto che quanto riportato nel titolo fa parte di quei concetti filosofici molto vicini a Wilhelm Reich, facendo riferimento alla capacità di generare dal caos qualcosa di armonioso dopo un inevitabile (e purtroppo necessario) conflitto. Sono passaggi che vengono sviluppati nella psicanalisi e che, traslandoli poi in musica, dovrebbero portare a delle realizzazioni imprevedibili. In effetti, Davide Sollo si è dichiarato appassionato tanto di prog quanto di jazz-rock e fusion (generi che spesso si “contaminano” molto felicemente l’uno con l’altro), avendo così tutte le carte in regola per andare oltre gli schemi. Nella pratica, poi, non sempre questo succede, soprattutto nelle parti cantate, dove gli schemi stessi risultano invece abbastanza consolidati, in certi casi molto vicini agli stereotipi dei Genesis; ma quando si passa alle lunghe parti strumentali, il cambiamento è quasi sempre repentino, mostrando un’indiscutibile volontà di esplorazione musicale. I pezzi sono sei, con un minutaggio abbastanza alto. L’apertura affidata a “11-IX-1683” è subito di grande impatto (che faccia forse riferimento alla sanguinosa battaglia di Vienna, fase finale del famoso assedio ottomano nella capitale austriaca, poi immortalata nel film omonimo di Renzo Martinelli?), con un assolo di basso davvero rutilante che segue l’introduzione del pianoforte di Samuel Dotti (Mogador) e i controtempi sull’asse chitarra/batteria. Ritmica molto complessa grazie anche al lavoro dietro le pelli di Maurizio Berti, che non si arresta nemmeno durante le strofe cantate da Marco Dogliotti (pure lui negli Höstsonaten). In certe fasi il pezzo ricorda un po’ i Fates Warning di “No exit” (1988), cioè quando il cantante titolare era appena diventato Ray Alder e l’approccio metal diveniva sempre più progressivo. Gli acuti, però, qui risultano un po’ troppo forzati. La bravura di Sollo risalta ancora di più nella strumentale “Turn left”, cupa e monolitica, dove il basso regna incontrastato, correndo e “slappando” a proprio piacimento in una landa inquietante in cui aleggiano sinistri effetti tastieristici ad opera di Jason Rubenstein (The Hypersonic Factor), accompagnati anche qui da una batteria incessante. La parte finale tende inaspettatamente a rilassarsi e gli assoli scivolano fluidi in stile fusion. Negli oltre undici minuti di “A journey” dietro al microfono c’è Alessandro Corvaglia, autore di una prova misurata, e i sopra citati riferimenti ai Genesis divengono evidentissimi. Ottima la parte strumentale, in cui tutto cambia e diventa quasi più contemplativo nel suo virtuosismo; dopo un ancora ottimo Daniele Sollo, segue un altrettanto eccellente Domenico Cataldo, ricordando il lavoro dei vari chitarristi che si sono succeduti negli ultimi album a nome Taylor’s Universe dell’artista danese Robin Taylor, sicuramente più accessibili rispetto agli inizi ma sempre anticonvenzionali. Da segnalare la presenza anche di Stefano Agnini alle tastiere (La Coscienza di Zeno, Il Cerchio Medianico) e Valerio Lucantoni alla batteria (The Wormhole Experience). “In my Arms” viene aperta da un arrangiamento d’archi di Luca Scherani (La Coscienza di Zeno, Hostsonaten, Periplo, Trama… e chi più ne ha, più ne metta!), su cui scorrono assoli di basso molto fantasiosi; oltre al cantato quasi recitato proprio da Fabio Zuffanti, va sicuramente citata una prova che sembra un misto tra i Weather Report e le soluzioni contemplative proposte negli ultimi anni dalla scena fusion indonesiana. L’impegno progressivo torna assieme ad Alessandro Corvaglia sui quasi dodici minuti di “Anytime, anyplace”, ancora in stile Genesis, ponendo le tastiere ancora di Scherani subito in primo piano. Ottima la prima sezione strumentale, dove il basso riecheggia nella sua corsa aggrovigliata, quasi nello stile delle pubblicazioni ad opera di Pat Metheny. Colpisce l’impennata dura dopo la seconda strofa, che nel suo andamento non forsennato ma comunque energico potrebbe rientrare in un approccio simile proprio alla Maschera di Cera. Poco dopo il settimo minuto, gli amanti del virtuosismo chitarristico progressivo potranno sollazzarsi con l’assolo eseguito da Cataldo. Si chiude con “Pavane in F# Minor”, esecuzione classica per solo basso ed effetti atmosferici scritta da Gabriel Faurè ed arrangiata dallo stesso Sollo. Un modo pacato per concludere, che però si ripete nell’arco di oltre sei minuti, forse eccessivo, dotato però di una sua profondità. Un bell’esordio, soprattutto dopo averlo ascoltato un paio di volte, intriso di immagini spirituali e forse paradossali come quelle che rivestono il digipack. Si segnala che l’ordine dei brani nell’apposito libretto è sparso, occorre quindi rifarsi ai titoli riportati in copertina. A parte questa puntualizzazione, l’album è davvero valido e si spera che tale percorso discografico possa essere continuato nonché ulteriormente ampliato.
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Michele Merenda
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