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ASIA MINOR |
Points of libration |
AMS Records |
2020 |
FRA |
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La storia degli Asia Minor è fatta di cocenti sconfitte e di grandi rivincite. La sconfitta più grande è sicuramente segnata dal rifiuto ricevuto dal music business e dalle case discografiche che, negli anni Settanta, non furono abbastanza lungimiranti da dare fiducia ad un gruppo che, nonostante tutto (e questa è stata la grande rivincita), è riuscito a realizzare un paio di album che sono universalmente riconosciuti come dei piccoli classici del nostro genere, acclamati per il loro stile unico e ricco di influenze mediorientali. Un’ulteriore vittoria per la band turco francese è sicuramente rappresentata da questo gradito ritorno, così atteso e sognato dai fan che hanno sempre dimostrato di apprezzare l’originalità di questi musicisti. Prima di avventurarci nella disamina di questo nuovo lavoro vale la pena spendere due parole sul passato del gruppo ad uso e vantaggio di chi fino ad ora non ne aveva mai sentito parlare o di chi ovviamente voglia approfondire l’argomento. Dobbiamo tornare indietro fino al 1971 quando Setrak Bakirel (voce e chitarra), Eril Tekeli (flauto e chitarra) e Can Kozla (batteria) si incontrarono al St. Joseph College di Istanbul e fondarono una band di studenti. Passati pochi anni i tre si trasferirono in Francia per completare i propri studi ed è in questa nuova terra che vennero gettati i semi che daranno vita a quello stile musicale tanto apprezzato e tipico degli Asia Minor, molto incentrato, soprattutto agli inizi, su flauto e chitarra. Il nuovo gruppo venne chiamato Layla proprio in riferimento ad un personaggio della mitologia persiana, richiamando quindi certe caratteristiche musicali che ben conosciamo. Con l’arrivo di un bassista di nome Hervé (che verrà più tardi rimpiazzato da un compagno di classe di Bakirel) i Layla iniziarono ad esibirsi partecipando anche a tre serate del Festival di Parigi. Nel 1975 il gruppo cambiò nome in Asia Minor Process, che diverrà semplicemente Asia Minor, nella forma in cui conosciamo, due anni più tardi, grazie a Lionel Beltrami, il nuovo batterista giunto a rimpiazzare Kozla che partì per gli Stati Uniti all’inseguimento di una nuova carriera in ambito Jazz. Fu proprio di Lionel il suggerimento, non accolto in un primo momento, di inserire alcune parti tastieristiche nel contesto di un sound dominato dalle chitarre di Eril e Setrak che spesso si intrecciavano in interessanti duetti. Con un nuovo bassista, Paul Levy, il gruppo dava così corpo al nuovo materiale, assorbendo nel proprio stile scale medievali, elementi progressivi anglosassoni e nuance mediorientali, con abbellimenti tastieristici forniti dal tastierista dei Grime Nicolas Vicente che aggiunse le sue parti a tre delle canzoni del debutto. Il demo fu proposto, senza successo, a diverse case discografiche. Il manager della CBS manifestò interesse per quella musica così originale e distante dagli standard dell'epoca, partecipando anche alle prove del gruppo, ma non riuscì a convincere i propri superiori. Fu così che gli Asia Minor si addossarono le spese di produzione, grazie all’aiuto di amici e parenti, e registrarono l’album su 16 tracce nei Maia studios di Parigi con la supervisione del tecnico del suono Serge Dudit. Dal momento che Paul Levy dovette lasciare il gruppo per motivi personali, le parti di basso furono curate da Eril e Setrak. Tutte le canzoni registrate furono pubblicate nell'esordio ad eccezione di "Boundless" che alla fine fu inserita nel secondo album. Dei nove brani prescelti, due erano in turco, a differenza di tutti gli altri cantati in inglese. Al termine della registrazione il gruppo cercò un canale di distribuzione incontrando le stesse resistente sperimentate con il demo. "Crossing the Line" uscì il 19 aprile 1979 con l'etichetta fondata dal gruppo, la Ware of Asia Minor (W.A.M.) ed il titolo, suggerito da Eril, simboleggiava il confine fra i sogni e la realtà, o in un altro senso la speranza di pubblicare la propria musica e la realizzazione finale di questo sogno. La risposta della stampa, all'epoca orientata verso il punk, fu poco entusiastica. Il disco trovò distribuzione soltanto in alcuni negozi musicali parigini ma nonostante tutto brillava intensamente per i suoi contenuti originali che non passarono inosservati agli intenditori. Nel 1980 giunse il secondo LP, "Between Flesh & Divine", considerato tutt’ora un piccolo classico del genere e dopo la sua pubblicazione gli Asia Minor continuarono ad esibirsi per un altro paio di anni fino al loro scioglimento. Il mini LP "Landscape Pictures In Rock", contenente nuove e più brevi versioni dei brani dell’esordio, fu registrato sei anni dopo lo scioglimento ufficiale grazie a Setrak ed Eril, con il supporto dei vecchi colleghi Robert Kempler (tastiere, basso) e Lionel Beltrami (batteria, percussioni). Nel 2013 gli Asia Minor tornarono assieme per alcuni concerti e con nuove composizioni destinate ad un nuovo album che giunge finalmente oggi, a distanza di quasi quarant’anni dall’esordio discografico. Il gruppo comprende attualmente, oltre ai veterani Setrak Bakirel (voce, chitarra) ed Eril Tekeli (flauto, chitarra) anche Evelyne Kandel (basso), Micha Rousseau (tastiere) e Julien Tekeyan (batteria). Si tratta di una line-up in gran parte rinnovata quindi che recupera però stilemi del passato musicale del gruppo in una formula parzialmente rinfrescata. Il titolo è molto suggestivo e si riferisce ai punti di Lagrance, i punti di oscillazione che consentono ad un corpo di piccola massa di mantenere nello spazio una posizione relativamente stabile rispetto a due corpi dotati di massa molto maggiore. I Camel sono ancora una volta un importante punto di riferimento per il gruppo che sceglie uno stile intensamente melodico e squisitamente sinfonico. La chitarre sono limpide e gentilmente intrecciate e le tastiere, con tanto di Mellotron, intessono delicate immagini sonore. Il flauto aggiunge dettagli morbidi ad un tessuto sonoro dalle tenui colorazioni mediorientali. La title track, posta in apertura, è l’incarnazione perfetta di questa formula Cameliana d’oriente con le sue atmosfere sognanti ed incantate. Molto belle le trame elettriche ed acustiche che caratterizzano “In The Mist”, con le sue morbide interazioni fra flauto e chitarre. Un elemento di debolezza è forse rappresentato dalla trama ritmica spesso fin troppo squadrata e bisogna anche dire che la voce di Setrak Bakirel appare piuttosto monotona e poco espressiva anche se, tutto sommato, queste composizioni, disegnate nel loro complesso con gusto ed ispirazione, ci fanno sorvolare su certi difetti. Tutti i brani sono in inglese tranne l’ultimo, “Radyo Hatırası”, cantato in turco ed impreziosito da elementi etnici particolari in una contaminazione stilistica interessante che ci riporta ai fasti del passato. Proprio quest’ultimo brano è fra i miei preferiti e mi fa quasi desiderare un intero disco cantato in turco, lingua con la quale Bakirel si sente evidentemente più a suo agio. Come curiosità notiamo in apertura di “The Twister” alcuni manifestanti che urlano slogan in italiano e che probabilmente appartengono a una manifestazione dei dipendenti di Alitalia di qualche anno fa. A parte questo sinceramente il brano non mi colpisce molto, appesantito dal cantato monocorde che lo domina. Non colloco questo disco ai livelli dei precedenti, anche se presenta una scrittura variegata, soluzioni interessanti ed appare complessivamente, pur con tutti i suoi limiti, di buona fattura. Credo in definitiva che le aspettative degli appassionati non andranno deluse se decideranno di avventurarsi in questo ascolto e mi chiedo se questo terzo album non riesca a mantenere una propria posizione stabile nell’universo musicale del prog, grazie ai suoi due illustri predecessori, senza scivolare nei buchi neri della memoria.
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Jessica Attene
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