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THE TRIP |
Caronte 50 years later |
Ma.Ra.Cash Records |
2021 |
ITA |
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“Guai a voi, anime prave!”, recitava il memorabile terzo canto dell’Inferno dantesco, in cui il bieco nocchiero Caronte caricava sulla sua barca i dannati che dovevano essere condotti proprio negli inferi, ammonendoli con fustiganti parole. Ed è proprio con questi versi che si apre “Acheronte” – riferito al fiume omonimo che conduceva nel doloroso regno sotterraneo –, brano inedito posto all’inizio di un lavoro con cui i The Trip rendono tributo a loro stessi. Dopo cinquant’anni, infatti, la storica band rivisita il proprio storico secondo album, “Caronte”, con cui entrarono definitivamente nel mondo del progressive-rock. Riguardando indietro, un anno divenuto importante anche a livello collettivo, sancendo di fatto l’inizio della stagione del prog italiano assieme a Le Orme con il loro “Collage”, l’esordio degli Osanna con “L’uomo” (anello di congiunzione tra pop, psichedelia, hard-rock e quello che poi sarebbe stato chiamato per l’appunto prog-rock) ed il “Concerto grosso” dei New Trolls. Perché ci si dilunga tanto in nozionismi? Perché quando si tratta di una band storica pare non basti parlare della qualità della proposta – comunque buona, in questo caso – e semplicemente dire i fatti come stanno: riproposizione fedele all’originale, chiamando in causa i nuovi componenti che si dimostrano all’altezza degli illustri predecessori, adeguando le sonorità a quelle attuali ed inserendo alcuni pezzi come novità, lasciando poi al singolo ascoltatore l’opinione se ne valeva davvero la pena o meno. No, occorre di più. E allora che si rimettano per un attimo indietro le lancette del Tempo. Era il 1966 quando il cantante Riki Maiocchi, fuoriuscito dai Camaleonti, si era recato a Londra per creare una band che rispondesse a canoni maggiormente rock e psichedelici. Tramite il batterista Ian Broad (già frequentato a Milano) vengono aggregati il bassista Arvid “Wegg” Anderson e un certo… Ritchie Blackmore alle sei corde, conosciuto come valente sessionman. Viene aggiunto anche un secondo chitarrista, lo scozzese William “Billy” Gray, noto per la sua presenza tra le file del gruppo The Anteekers e soprattutto per la collaborazione con Eric Clapton ad un singolo di David Bowie. Sono quindi nati i Maiocchi & The Trip. Blackmore avrebbe lasciato per fare fortuna con i Deep Purple, Maiocchi invece se ne sarebbe andato per i fatti suoi e basta. Rimasti in Italia, i musicisti britannici avrebbero serrato i ranghi e fatto entrare in squadra sia il tastierista savonese Joe Vescovi che il batterista Pino Sinnone, chiamato a sostituire Ian Broad (pare per problemi di tipo caratteriale). The Trip diventa una realtà italo-britannica finalmente a sé stante e dopo l’album omonimo del 1970, ancora ibrido nelle sonorità, ecco la svolta prog tout court l’anno successivo proprio con “Caronte”, che si distingue per le sue armonie articolate ma allo stesso tempo fruibili, ponendo in risalto un sound “ruvido” tipo gli Atomic Rooster o gli Emerson, Lake & Palmer più arrabbiati, con degli spunti che fanno pensare anche ai Quatermass. Di quella formazione resta in vita oggi il solo Sinnone, incaricato dal morente Joe Vescovi di portare avanti il nome del gruppo. Il batterista è quindi un odierno Caronte, canuto barcaiolo figlio del Buio primordiale e della Notte, che conduce l’Essenza della band nel flusso degli anni. Con lui, dal 2015 vi sono musicisti calati perfettamente nella parte: il cantante Andrea “Ranfa” Ranfagni, spesso vocalist per Ian Paice (storico batterista dei Deep Purple, guarda caso) e ad oggi cantante dei Vanexa; il cantautore campano e polistrumentista Carmine Capasso alle chitarre; il tastierista Andrea “Dave” D’Avino (che ha lasciato però la band dopo la pubblicazione di quest’album) ed il bassista Tony Alemanno, entrambi provenienti dalla scena musicale milanese. Poco altro da dire, se non che la succitata “Acheronte”, a posteriori, è forse quell’introduzione al concept che probabilmente in origine davvero mancava, rendendo così la (ri)proposizione decisamente più completa ed organica. “Caronte”, poi, è resa molto bene con gli intrecci strumentali, l’organo Hammond sempre in primo piano, portando avanti un tema che sarebbe poi stato ripreso in piccola parte nella ritmica di un suo brano da un cantautore italiano di cui è meglio non fare il nome per evitare ripercussioni; magari è solo una delle tante casualità. Anche “Two Brothers” mantiene alti gli standard, sottolineando che i rumori iniziali dell’originale vengono omessi, sostituiti dal quello di una Harley Davidson ad opera di Antonio Capasso. I momenti migliori sono comunque da ritrovare innanzi tutto su “Little Janie”, una ballata dalle reminiscenze beatleasiane reinterpretata con lo stile strappalacrime cantautoriale italiano dell’epoca, dedicata a Janis Joplin. In questa nuova edizione suona decisamente meglio, soprattutto grazie all’interpretazione vocale di Ranfagni. Poi si può proseguire con “Ultima ora e ode a Jimi Hendrix”, la cui prima parte ricorda proprio i succitati Quatermass; anche qui, un’ottima interpretazione vocale, oltre ad un convincente approccio chitarristico. Buona pure la complessa “Caronte II”, aggiungendo la reinterpretazione di “Una pietra colorata” e “Fantasia”. La prima viene estrapolata dall’esordio omonimo e presenta un approccio molto più blues; il secondo è invece un singolo estratto dal film “Terzo Canale – Avventura a Montecarlo”, cronaca surreale di un viaggio nella città riportata nel titolo, concluso con la partecipazione al festival pop di Caracalla (nel movie in questione erano presenti anche altre realtà musicali diversificate, tipo Mal o i New Trolls). In entrambi i pezzi troviamo Kri Sinnone alla batteria, figlio di Pino. Un ideale passaggio di testimone? Si vedrà. Nel frattempo, si consiglia di andare a risentire il lavoro originale, anche se appare decisamente scontato suggerirlo. Pino, dal canto suo, in quanto nocchiero può ritenersi soddisfatto.
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Michele Merenda
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