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EZRA WINSTON Tertium non datur Progressivamente 2021 ITA

Il medium è il messaggio”, affermava già nel 1967 il visionario sociologo canadese Marshall McLuhan (incontrato da Rael durante le sue peregrinazioni newyorchesi, ma questa è un’altra storia) e la decisione di pubblicare al giorno d’oggi un’opera fonografica solo su supporto fisico e per di più il più antico di tutti, qual è il vinile, parrebbe comunicare l’intenzione di farla passare sottotraccia. Aggiungiamo che la distribuzione esclusiva in edicola (sia pure come parte di una collana editoriale di successo, ancorché di nicchia) aggrava il suddetto pericolo, e ciò è tanto più beffardo considerando che il mondo degli appassionati prog (italiani e giapponesi in primis) ha atteso questo terzo album per 31 lunghi anni. Non manca di sorprendermi, infatti, come questo nuovo lavoro dei romani Ezra Winston – gruppo ormai quasi mitizzato, le cui gesta vivono nei due album “Myth of the Chrysavides” (1988) e “Ancient afternoons” (1990) e nei ricordi dei pochissimi fortunati che abbiano avuto la fortuna di vederli suonare dal vivo – sia rimasto pressoché ignorato dai radar di critici, recensori e riviste specializzate, con la notevole eccezione della testata nostrana legata però a doppio filo alla collana “Prog Rock Italiano” curata da DeAgostini. A dirla tutta, l’uscita del vinile fu accompagnata dalla volontà di pubblicare l’opera in CD in un secondo momento, con il bonus di brani aggiuntivi rimasti fuori dal master dell’LP per ovvie ragioni di spazio fisico; ad oggi, il 33 giri resta però il solo formato disponibile (si fa per dire…). Parlo usando il passato remoto, perché probabilmente anch’io mi sono fatto influenzare dalla durata “biblica” della gestazione del disco, e pur acquistandolo a ridosso della release originale (luglio 2021) ed apprezzandolo immediatamente, lo sto esaminando solo oggi.
Partiamo da un assunto importante: gli Ezra Winston sono da tempo una band in stato “dormiente” ma capace per anni di periodici risvegli, che produssero esibizioni live (pochissime, una qui documentata) ed estemporanee sessioni di registrazione: non abbiamo dunque tra le mani un vero e proprio terzo album propriamente concepito, ma come affermato efficacemente dal polistrumentista e membro fondatore Mauro Di Donato, una raccolta di incipit (credo abbiate presente il romanzo “Se una notte d'inverno un viaggiatore” di Italo Calvino…) di “potenziali terzi album” che grazie all’entusiasmo e all’istigazione di Guido Bellachioma, hanno finalmente trovato una casa comune.
I cinque brani contenuti spaziano temporalmente dal 1998 al 2015 (pochi anni più tardi, il chitarrista originale Fabio Palmieri decide di abbandonare la musica “suonata”) e vedono il contributo del terzo componente storico Paolo Lucini (fiati, wind synth, tastiere, basso), del chitarrista Stefano Pontani, di Fabrizio Santoro (Nodo Gordiano) e Simone Maiolo (Gallant Farm) al basso e di Ugo Vantini (Divae) alla batteria, con il percussionista originale Daniele Iacono presente in un singolo brano.
L’apertura è affidata a “Dial-Hectic”, un episodio registrato live a Roma nel 2004 di cui già il gioco di parole del titolo rivela la natura insolitamente frenetica per una band avvezza ad inserimenti pastorali: basata su un tempo tirato ma peculiare (23/8) e interventi di sintetizzatori, organo, loop e sequenze, costituisce forse l’archetipo degli Ezra Winston del nuovo millennio; le stesse liriche sono una claustrofobica parodia dell’overload di informazioni del mondo contemporaneo e risultano egualmente rilevanti quasi vent’anni più tardi; verso il finale alcune suggestioni di scuola IQ fanno capolino. Ritroviamo gli elementi folk del passato nella seguente “Call up” (già intitolata “The Reveille” nella compilation “Progressivamente story” del 2014), incluso il flauto di Lucini e la coppia di chitarre classica/acustica di Di Donato e Palmieri; dopo aver piacevolmente sfiorato territori Jethro Tull, il brano si arricchisce di interventi elettrici (e del sax) e acquisisce connotati più prettamente rock, inneggiando letteralmente ad un “risveglio” e costituendo una chiamata agli strumenti per musicisti pigri (autoironia?), inanellando citazioni musicali. C’è ancora spazio nel lato A per una composizione presentata in studio da Mauro Di Donato pressoché completa: “The rain comes” parte atmosferica, con la voce straniante adagiata su tappeti di tastiere malate: inizialmente trovo qualche affinità solo con il Peter Hammill cupo e monocromo di “Fogwalking”, ma strada facendo sopraggiungono sinfonismi che ce la fanno accostare agli episodi più sperimentali di “The Lamb…”; resta comunque un episodio dal fascino misterioso. Il lato B è costituito da due mini-suite: “Mars attacks”, la cui scrittura risale al 1998, è suddivisa in tre movimenti ed esordisce con stratificazioni vocali à la Gentle Giant per poi lasciar spazio a sprazzi genesisiani (incluso un omaggio dichiarato a “The fountain of Salmacis”) che mi paiono nuovamente filtrati dalla sensibilità degli IQ, forse complice la timbrica dei synth, ad una parentesi pianistica di jazz latino, a frammenti ispirati forse alla sezione centrale di “Echoes” dei Pink Floyd, all’espressività della chitarra di Pontani; insomma un altro brano frenetico e sfaccettato che dimostra l’intero spettro delle possibilità espressive dell’eclettica band romana. Un po’ più cadenzata è “Odd one out”, il brano più recente, il cui arrangiamento è stato perfezionato durante il lockdown del 2020: ancora una volta i nostri riescono a contenere in 10 minuti una quantità di idee che in altre mani sarebbero state diluite in un intero album: qui la voce assume caratteristiche un po’ teatrali, la batteria di Vantini è il treno inarrestabile su cui saltano a turno e con esuberanza gli altri strumenti (incluso il fagotto!); per quanto gli Ezra Winston non amino essere accomunati al new-prog inglese, alcuni frangenti “sopra le righe” mi riportano agli anni ’90 e in particolare ai Citizen Cain di “Somewhere but yesterday”.     
In definitiva, nonostante la particolare gestazione che lo rende più una compilation di inediti (attenzione: non certo “scarti”), l’album risulta di una coesione invidiabile ed auspicabilmente può costituire allo stesso tempo la formalizzazione di un lungo periodo di attività intermittente ed un ponte verso un possibile quarto album (eventualità non esclusa da Di Donato) del quale saremmo in molti a rallegrarci.

Quasi dimenticavo di menzionare la bellissima confezione del disco, opera della disegnatrice Lorenza “Pigliamosche” Ricci (front cover) e del fumettista “bonelliano” Giuliano Piccininno (gatefold interno).
Per la reperibilità, in attesa dell’annunciata versione in compact disc o eventuali ristampe dell’LP, credo che ormai ci si possa rivolgere solo al mercato del vinile di seconda mano, considerando improbabile il recupero di copie di magazzino invendute.



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Mauro Ranchicchio

Collegamenti ad altre recensioni

EZRA WINSTON Ancient afternoons 1990 (Musea/Rock Symphony 2000) 
VV.AA. 7 days of a life 1993 

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