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OPETH |
Damnation |
Music For Nations |
2003 |
SVE |
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Folgorata sulla via di Damasco, la band svedese si lascia alle spalle un passato che affonda nella putrida melma del death/black metal, scandito dalla pubblicazione di ben 6 album pregressi. "Damnation" giunge come un fulmine a ciel sereno svincolando questi tenebrosi musicisti da un percorso artistico che si era fino ad ora snodato lungo i sentieri maledetti della musica estrema. Le parole che Mikael Åkerfeldt, chitarrista e cantante, scrive sul sito ufficiale della band, sottolineano questa metamorfosi: “…ma in qualche luogo lungo la strada abbiamo trovato qualcosa che ha fatto diventare gli Opeth quello che sono oggi. Potrebbe essere il nostro interesse nella musica sinfonica e progressive che per me è la forma musicale definitiva.” Per la precisione, le radici di "Damnation" si intravedono sporadicamente in qualche episodio del passato, in particolar modo quando Mikael liberava la sua profonda voce dai rantoli gutturali del growl, adottando una timbrica naturale e suadente. Bisogna inoltre sottolineare che già nei due album precedenti gli Opeth avevano iniziato ad avvalersi della produzione e delle tastiere di Steven Wilson la cui opera dona a questa ultima fatica una luce a dir poco particolare. Se non vi piace la musica estrema (leggi: death e affini) farete comunque bene a non disseppellire le esperienze del passato in cui, nonostante il tocco di Wilson e l’amore per composizioni lunghe e particolareggiate, prevalgono le sfuriate percussive a doppio pedale ed il classico cantato gutturale di cui attualmente non è rimasta traccia alcuna. "Damnation" è un’opera malinconica, crepuscolare ed introspettiva, dal sapore nordico e molto affine allo spirito dei primi Landberk o dei Paatos. Le armonie gravose e caliginose del mellotron, i delicati arpeggi elettroacustici, i backing-vocals di Wilson che affiorano romanticamente come un ricordo lontano, fanno parte di un paesaggio sonoro spettrale e dall'alto impatto emozionale. I testi (quello di" Death wispered a lullaby" è opera dello stesso Wilson) sono delle vere e proprie poesie decadenti. L'album accusa un progressivo calo di tensione nell'arco dei suoi 43 minuti che iniziano alla grande con due brani evocativi e densi di pathos fino a declinare con le due tracce conclusive: l'insipida "Ending credits", uno strumentale alla Porcupine Tree, e la rarefatta "Weakness", a dir poco fiacca! Considero il risultato complessivo soddisfacente e spero che questa esperienza non sia un episodio isolato e che quindi la band prosegua sul nuovo percorso aperto da questo album.
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Jessica Attene
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