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C’è limite al genio folle di Daevid Allen? Si direbbe proprio di no, a giudicare dal nuovo parto dei Gong, introdotto, tra l’altro, da un’orribile copertina. Il chitarrista australiano rivoluziona la sua creatura, reclutando musicisti che pure non scherzano quanto a eccentricità. I giapponesi Kawabata Makoto (chitarra e bouzouki) e Cotton Casino (tastiere) sembrano, in effetti, degni compagni di avventura del folletto ultrasessantenne che ancora oggi non smette di stupire con il marchio Gong. Insieme al chitarrista Josh Pollock, al batterista Orlando Allen e al bassista indonesiano Dharmawan Bradbridge si punta su una musica ovviamente stralunata, che pure si discosta dalla vecchia produzione del gruppo. Per la prima volta in carriera, infatti, non viene fatto utilizzo dei fiati. Eppure emerge una sorta di moderna psichedelia che permette l’accostamento di suoni spaziali, sperimentazioni bizzarre (ovviamente), improvvisazione, rock caotico, tratti aggressivi guidati da chitarre acide ed una libertà di fondo che rende ogni composizione imprevedibile. Il buon vecchio Daevid, insomma, ha tutte le intenzioni di continuare a meravigliare e sconcertare con una proposta che non bada a compromessi: non si tiene conto della forma, ma si punta su contenuti di qualità. La cosa che sorprende maggiormente, tuttavia, è proprio l’utilizzo della gloriosa sigla Gong per un prodotto che ha ben poco a che vedere con la musica che caratterizzava la trilogia “Radio Gnome Invisible” ed i dischi più recenti. Insomma, dagli undici pezzi che compongono “Acid motherhood” non potete aspettarvi sonorità familiari, ma una musica, per quanto visionaria, soprattutto moderna e senza legami netti con quegli allucinati viaggi in teiera che sbalordivano trenta e passa anni fa.
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