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BRIGHTEYE BRISON |
Stories |
Progress Records |
2006 |
SVE |
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Dimenticate la scontatissima associazione di idee tra musica scandinava e brumosa malinconia: la nuova tendenza delle band svedesi è decisamente orientata verso una proposta gioiosa e solare, pur mantenendosi saldamente nei binari dell’ortodossia del prog sinfonico. Dopo i “luminosi” debutti di Moon Safari, Magic Pie e Brother Ape siamo finalmente deliziati dal secondo album dei Brighteye Brison, band nata nel 2000 per volontà del tastierista Linus Kåse (formatosi al Royal College of Music di Stoccolma) e da anni sotto l’ala protettrice di Mattias Olsson, batterista degli Änglagård nonché fondatore di numerose band a cavallo tra pop e prog, qui presente in veste di “rumorista”.
L’esordio eponimo del 2003 metteva in luce le buone capacità della band, ma soffriva probabilmente di una produzione non ottimale, il nuovo “Stories” colpisce invece già dal primo ascolto per la registrazione cristallina ed il mix impeccabile; l’altro fattore indiscutibile è la predominanza delle eleganti tastiere di Kåse, che predilige timbriche vintage (Grand piano, Mellotron, Orchestron, organo Hammond e a canne, Solina, Mini-Moog e vari altri synth monofonici) e le utilizza con ammirevole fantasia.
La breve title-track in apertura palesa le influenze beatlesiane negli intrecci vocali e ci conduce verso il primo dei pezzi “epici” dell’album: “Patterns” è un brano di rock sinfonico che si distingue per i dialoghi tra chitarre sovraincise e piano, una combinazione che rimanda direttamente agli esperimenti sonori dei migliori Queen di “A Night at the Opera”; il sitar elettrico è lo stesso utilizzato da Steve Howe in vari brani classici (“To be over” forse il più celebre).
La seguente “Isolation”, così come le ballate “Life inside” e “Late” presentano invece il lato più pop della band, sempre comunque gradevole e gustoso grazie soprattutto ai melodici assoli di Moog… in alcuni frangenti il piano sincopato può richiamare alla mente alcuni brani di Sting, ma la cosa stranamente non stona nel generale contesto di prog classico. In questi brani più disimpegnati le parti vocali solistiche non sempre sono all’altezza delle ottime prove corali.
Certamente più interessante “The Battle of Brighteye Brison”, arricchita da inediti intrecci tra un autentico organo a canne e la tromba suonata dal batterista Daniel Kåse; addirittura il brano raggiunge un climax sonoro non distante dal finale di Awaken, il capolavoro degli Yes, e già questa mi sembra un’ottima referenza!
Altro brano lungo e mutevole è “All love”: nei nove minuti di durata i nostri passano con disinvoltura da un esordio dominato da sax soprano ed archi di Mellotron (se Rick Wakeman avesse suonato su “The Dream of the Blue Turtles” forse avremmo ascoltato qualcosa di simile!) ad una sezione eccentrica alla Gentle Giant con tanto di xilofono e chitarra elettrica dal suono consunto.
“We wanna return” è invece un brano piuttosto convenzionale dal sapore Spock’s Beard e Supertramp e ci conduce al termine dell’album con la ripresa del tema iniziale.
Nonostante alcuni possibili miglioramenti sul piano compositivo, il giudizio finale non può essere che positivo: l’originalità dei brani non è forse il punto forte dei Brighteye Brison, ma è sicuramente molto superiore rispetto ad altre celebrate band connazionali, nulla da aggiungere poi sui deliziosi arrangiamenti; tutto sommato il pregio di quest’album coincide con quello che da un punto di vista più severo potrebbe essere visto come il suo difetto: è un’opera dal feeling familiare e rassicurante. Proprio per questa ragione, il paragone più calzante che mi sento di esprimere è certamente quello con gli svedesi Moon Safari: un altro ottimo album per profumare di prog la nostra imminente estate…
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Mauro Ranchicchio
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