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BRIGHTEYE BRISON V Bad Elephant Music 2019 SVE

I Brighteye Brison hanno sfornato quattro discreti album tra il 2003 e il 2011 prima di entrare in stand-by, principalmente, presumo, per il gran numero di impegni da parte di Linus Kåse (piano, synth, sax e voce) e Erik Hammarström (batteria), entrati entrambi a far parte degli Änglagård e impegnati, specialmente il secondo, in vari altri progetti (All Traps On Earth uno degli ultimi). Il tempo a quanto pare è arrivato per aggiungere un nuovo capitolo alla discografia di questa band e la formazione è uguale a quella che avevamo lasciato in “The Magician Chronicles - Part I” che include, oltre ai nomi già citati, Johan Öijen (chitarra), Per Hallman (organo, Mellotron, synth e voce) e Kristofer Eng (basso, Theremin e voce).
La musica di questa band non aveva (e non ha) molto a che vedere con le atmosfere cupe e brumose dei progetti con cui Kåse e Hammarström si sono cimentati in questi anni, orientandosi più su un Prog sinfonico luminoso, influenzato da Yes, Kansas e Flower Kings, con varie contaminazioni funky, AOR, pop o space, in un turbinio multicolore che è quanto di più lontano dalle oscure e misteriose atmosfere summenzionate. Ritroviamo in questo nuovo lavoro esattamente quanto avevamo lasciato quindi, compresa la predisposizione alle lunghissime composizioni, visto che quest’album consta di sole 3 tracce, rispettivamente di 12, 17 e 37 minuti.
E’ subito da notare che l’ultima delle tre composizioni porta il titolo “The Magician Chronicles - Part II”, andando a chiudere quanto è stato iniziato 8 anni prima; si tratta anche di quella più prettamente Prog e sinfonica delle tre, limitandosi (si fa per dire) ad un ampio susseguirsi di atmosfere e temi magniloquenti, senza grosse variazioni stilistiche. Ovvio che una traccia di questa lunghezza presenti comunque una serie di movimenti e mutamenti di umore, tutti però a comporre una gigantesca e camaleontica successione di temi sinfonici in cui fughe di Moog, squittii di Theremin e maestose atmosfere di Hammond e Mellotron si alternano ad armonie vocali, sempre corali, parti strumentali a metà strada tra Yes e Gentle Giant (vengono alla mente alcune cose dei primi Spock’s Beard, dei già citati Flower Kings ma anche il new Prog di IQ e simili). Momenti in cui la musica fluisce gioiosamente si susseguono a maestose e solenni aperture sinfoniche o a spezzoni più simili all’AOR o anche a momenti più soffusi e delicati. Il risultato è decisamente attraente e soddisfacente per chi ama quello che può essere definito il buon vecchio Prog sinfonico e i quasi 37 minuti, cui comunque si giunge già precedentemente riscaldati dalle prime due tracce, passano in modo leggero, senza pesantezze di sorta.
Facendo un passo indietro, le due tracce iniziali sono più brevi ma non certo meno composite. “The Crest of Quarrel” si avvia con effetti e ronzii che fanno quasi pensare a “I Know What I Like” per sfociare in un AOR alla Styx, molto anni ’80 anche per alcuni suoni, pur con piacevoli inserti di Hammond e Mellotron e qualche digressione più tipicamente new Prog. Brano piacevole e divertente… poco di più. La title track (sì… la traccia si intitola proprio “V”) inizia su tonalità quasi misteriose, di sicuro meno giocose della precedente, mantenendosi comunque a lungo in territori vicini all’AOR, con variazioni funky e bei cori vocali. Nella sua seconda parte la traccia comincia ad acquisire strani connotati… molto strani, con pezzi musicali dissonanti e bizzarri, quasi RIO, che vanno ad intersecarsi alla struttura AOR/sinfonica che ogni volta, come dopo un breve acquazzone primaverile, torna a scintillare. Il brano va a chiudersi quindi in crescendo, sia ritmico che umorale, lasciandoci una buona impressione e predisponendoci positivamente per l’epico finale, già descritto.
Decisamente un buon album, forse il migliore della discografia della band (anche se non ho ascoltato tutti i suoi album), scorrevole ed abbastanza fruibile, anche se non assimilabile appieno al primissimo ascolto.



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Alberto Nucci

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