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RIVERSIDE |
Second life syndrome |
Inside Out |
2005 |
POL |
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Acclamati a furor di popolo (o di critica?) tra i nuovi alfieri del prog europeo, i polacchi Riverside approdano alla seconda produzione discografica di studio attesi al varco con grandi aspettative, specialmente da parte del pubblico nordeuropeo, da sempre particolarmente attratto dal cross-over tra sinfonico, metal e rock gotico.
Già il precedente “Out of myself” aveva messo in chiaro che i numi tutelari dei Riverside erano da ricercarsi più che presso i maestri del prog dei settanta nelle band un po’ al confine del genere, in particolare gli ultimi Porcupine Tree (quelli dal suono irrobustito ma un po’ banalizzato) ed i Marillion del dopo “Brave”, senza trascurare sporadiche strizzate d’occhio alla proposta di band come Tool e Mars Volta e al metal-prog di Queensrÿche e Fates Warning (il chitarrista ed il batterista non a caso possono vantare trascorse esperienze in band metal).
Il senso della melodia è probabilmente il pregio maggiore della band, e la qualità che li fa emergere da un calderone altrimenti fin troppo popolato di band dedite ad un genere di frontiera che oserei ormai definire sfruttato fino al midollo; i Riverside sanno come rifuggire la banalità e riescono quasi sempre con successo a mantenere a livelli apprezzabili l’attenzione ed il gradimento, pur ricorrendo a soluzioni che non brillano per originalità (si senta il riff orientaleggiante della title-track che sembra provenire da “Scenes from a memory” dei Dream Theater, la ballata “Conceiving you” che farebbe la gioia di Steve Hogarth o il cantato metronomico di “Artificial smile”, affine al sound degli O.S.I. di Kevin Moore).
Altri assi nella manica sono sicuramente il chitarrista Piotr Gudziński, che quando vuole sa prodursi in assoli liquidi e sognanti (ma spesso eccede nei tipici riff granitici di chitarra ritmica) ed il cantante/bassista Mariusz Duda, dalla voce molto emozionale e la pronuncia inglese impeccabile… peccato però per le fastidiose escursioni vocali al limite del growl, capaci di raffreddare un po’ gli entusiasmi del progster medio. Piuttosto in sordina le tastiere di Michał Łapaj, raramente usate come strumento solista e generalmente con funzione di tappeto sonoro per conferire profondità ai frangenti più riflessivi; fa eccezione la lunga “Dance with the Shadows”, in cui le fughe di synth contribuiscono a conferire varietà e dinamica al brano.
Potrei definire i Riverside come gli eredi vitaminizzati dei connazionali Collage, dediti negli anni ’90 ad un new-prog melodico dalle melodie azzeccatissime; parlare di rivelazione assoluta o di nuovo fenomeno del prog mondiale significherebbe ignorare proposte magari meno “modaiole” ma ben più coraggiose; in ogni caso complimenti: ammetto che il genere non è il mio preferito nell’ambito del rock progressivo, ma aggiungo che poche band oggigiorno lo suonano in modo così convincente.
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Mauro Ranchicchio
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