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SLYCHOSIS |
Slychosis |
autoprod. |
2006 |
USA |
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Nato come evoluzione di una band chiamata Karma Kannix, con all’attivo un album (“Explorations in inner & outer space”, del 2004) di rock progressivo dai forti sovratoni psichedelici, questo trio del Minnesota composto da Gregg Johns (voce, chitarra, tastiere), James Walker (basso) e Todd Sears (batteria) sceglie la via della totale autoproduzione, registrando questa raccolta di 12 brani nel proprio studio ed occupandosi in proprio anche dell’artwork e della distribuzione.
Il risultato risente nel bene e nel male di questa scelta, a cominciare dall’imperfetta registrazione delle percussioni, che spesso risultano avulse dal reso del contesto strumentale per proseguire con il forte sentore amatoriale che si assapora nelle parti vocali piuttosto approssimative e da alcune ingenuità come le parti narrative di cui avrei fatto molto volentieri a meno.
I risvolti positivi si trovano sull’altra faccia della stessa medaglia: l’assoluta mancanza di levigatezza sfocia a volte in un ruspante retrogusto low-fi che in questi tempi in cui la perfezione tecnica spesso nasconde uno sterile manierismo compositivo può creare l’impressione di un prodotto genuino e rustico. Purtroppo, anche focalizzandosi sulla sincerità della proposta non si riesce certo a gridare al miracolo: la proposta degli Slychosis rientra in un filone di matrice Yes contaminato con elementi di space rock un po’ grezzo e debitore degli Hawkind dei tempi che furono.
Non mancano episodi più che apprezzabili, come l’apertura di “Samuel” di stampo new-prog e più precisamente IQ, senza peraltro mai sfiorare l’intensità e il pathos della band di Martin Orford; la successiva “Inner space” arricchita da scoppiettanti arabeschi di Moog con il marchio di Wakeman impresso a chiare lettere; il riff accattivante alla “Roundabout” di “Galactic wormhole”, rovinata però da un suono di batteria che trovo piuttosto irritante, la melodica e dichiaratamente floydiana “Until then” o la “Frosted Mini Suite” le cui voci straniate e distanti evocano l’astronave fantasma pilotata da Dave Brock.
Da dimenticare le parentesi sperimentali (“Wild night in Calcutta”, “E.V.P.”) e piuttosto scialbe quelle in cui l’anima hard-rock prende il sopravvento (“Meltdown”), ma qui forse si tratta di preferenze personali… il fatto innegabile è però una sensibile mancanza di direzione che porta la band ad avventurarsi in una molteplicità di stili senza un apparente disegno logico.
Non vorrei essere stato troppo severo con una band che merita comunque la nostra ammirazione per la tenacia con cui porta avanti un discorso che comunque non le frutterà alcuna soddisfazione commerciale, ma non mi sento di annoverare quest’album tra le nuove uscite che lasceranno un segno; in ogni caso potrete approfondire la conoscenza degli Slychosis e magari confutare le mia affermazioni scaricando i clip (estratti dall’intero album) presenti sul loro sito ufficiale.
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Mauro Ranchicchio
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