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OZRIC TENTACLES The floor's too far away Magna Carta 2006 UK

Non è un decennio facile per questa storica firma inglese, per anni simbolo di un modo di far musica ma anche di una filosofia di vita che trova le sue radici nel movimento “flower-power” dei sixties ed è giunta un po' malconcia ai giorni nostri passando per i free-festival britannici degli anni '80.
Vicissitudini discografiche hanno visto la band passare dall'autoproduzione dei lavori storici ai recenti vorticosi e dolorosi cambiamenti di etichetta, fino a trovare finalmente casa dalle parti di Peter Morticelli (con uno strano vicinato di band prog-metal).
Ma c'è di peggio: dal 2001 ad oggi i cambiamenti di line-up sono stati così frequenti da sfiorare il ridicolo (c'è stato posto anche per Harry Waters, figlio del più celebre Roger...), con il solo punto fermo nel chitarrista/leader e fondatore Ed Wynne libero di fare e disfare la band a suo piacimento. In particolare, la separazione dallo spiritato flautista "Jumping John” Egan dev'essere stata traumatica e non solo dal punto di vista affettivo: la band si ritrova al giorno d'oggi senza il frontman, il vero punto di fuga delle attenzioni dell'audience, e proponendo musica strumentale la mancanza si fa sentire doppiamente in contesto live.
Con queste premesse catastrofiche, fa immensamente piacere a chi ha seguito ed apprezzato la band per anni constatare che il nuovo lavoro in studio (il dodicesimo senza contare le release su cassetta, gli EP, le compilation ed il cofanetto) si mantiene comunque su livelli più che soddisfacenti, con alcuni picchi di eccellenza, e che in fondo la ricetta - sempre la stessa - ha avuto la meglio sui cuochi che si sono avvicendati.
Così come nel precedente "Spirals in Hyperspace" del 2004, la pubblicazione a nome della gloriosa band suona più che altro come una mossa commerciale: si tratta palesemente del lavoro di un’ipotetica Wynne Band, che contempla tra l’altro la consorte del riccioluto Ed ai synth/sampler ed al basso ma - a differenza dell'album citato - stavolta il suono è molto più organico, la drum-machine è utilizzata con più parsimonia in favore del bravo batterista in carne ed ossa Matt "Metro" Shmigelsky ed in fin dei conti il flauto di Egan era sottoutilizzato già da anni, quindi nessun cambiamento radicale.
Ospiti come gli ex-tentacoli Merv Pepler e Tom Brooks (fratello del Basil di fama Gong e Zorch) sono l'anello di congiunzione che lega la band odierna al suo passato e forse un tentativo per riappacificarsi con la base dei fan, ovviamente un po’ delusi dal “dispotismo” del leader in contrasto con le prerogative di quella che una volta aveva le caratteristiche di una comune hippie.
Passiamo finalmente alla musica: avete presenti album come "Arborescence” o il più recente “The Hidden Step”? Allora sapete cosa aspettarvi, il copione è sempre lo stesso: una chitarra tagliente e debitrice più di virtuosi come Satriani piuttosto che di Hillage, Allen o Brock (vedi “Bolshem”) e che all'occorrenza lascia spazio ad un'acustica dal sapore ispanico; un synth gorgogliante che produce bolle colorate a volontà; una sezione ritmica che fa del groove il suo punto di forza e si cimenta in incursioni reggae-dub; influssi mediorientali mediati da una sensibilità rock a volte confinante con l’hard-fusion, come in “Vedavox”; elementi techno affini alla musica da club (“Jellylips”, “Spacebase”).
Il tutto è mescolato nella giusta proporzione per ottenere il genuino pot-pourri psichedelico a cui gli Ozrics ci hanno abituato da oltre vent’anni, ma andando ad analizzare a fondo possiamo distinguere due anime, quella più rock dominata da lunghi assoli di chitarra e quella al limite del chill-out, con basso e batteria sintetizzati; anime che convivono negli episodi migliori come “Splat!”, dieci minuti che riassumono efficacemente l’intero album.
Consigliato senza riserve a chi ha apprezzato i lavori precedenti; chi al contrario considera la discografia degli Ozrics una lunga sequela di fotocopie farebbe bene a tenersene alla larga!


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Mauro Ranchicchio

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