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OZRIC TENTACLES |
The Yumyum tree |
Snapper |
2009 |
UK |
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Nonostante le peripezie che ne hanno stravolto la formazione negli ultimi anni di vita, gli Ozric Tentacles restano il baluardo dello space rock inglese figlio di una controcultura neo-psichedelica degli anni ’80 che riproponeva l’idealismo freak in opposizione all’edonismo che dominava quel decennio. Oggi più che mai gli Ozrics sono un gruppo aperto, e per ogni disco ed ogni tour il leader e fondatore Ed Wynne sceglie di circondarsi di diversi collaboratori, con la costante della consorte Brandi, che stavolta limita il suo apporto ai sintetizzatori.
Ho sempre personalmente contestato l’affermazione che vorrebbe gli Ozrics autori di dischi messi insieme con la carta carbone: come confondere infatti le suggestioni etniche/acustiche di “Erpland” con le tentazioni techno di “Strangeitude” (ricordate il singolo “Sploosh!”?) o accumunare il delirante deragliamento hard-psichedelico di “Pungent Effulgent” alle raffinatezze synth-etiche di “Waterfall Cities”? Oggi, ahimé, un tale luogo comune inizia però a contenere un fondo di verità: è dai tempi di “The Hidden Step”, album del 2001, che Wynne usa ribollire nel suo stesso brodo, riciclando in modo gustoso ma assai ripetitivo le idee che durante i primi anni ’90 fecero giustamente acclamare la band per la freschezza di idee (sarebbe un’altra ingiustizia liquidarli come un ibrido tra i Gong e i chitarristi ipertecnici alla Satriani, altro espediente usato per descriverli).
La novità principale dal quartier generale dei “tentacoli” è la rilocazione della band dall’umido sud dell’Inghilterra (da sempre prodigo di bizzarri funghetti…) all’altra sponda dell’Atlantico, precisamente in Colorado, con l’intento di trovare spazio nella florida scena delle jam band statunitensi. Musicalmente, come già accennato, le novità sono sparute: una sezione ritmica rinnovata, con Vinny Shillito al basso e Roy Brosh alla batteria, la collaborazione dei vecchi compagni Joie e Merv (già documentata nel recente album live registrato al Sunrise Festival) in due tracce, il ritorno auspicato ad un suono più organico (l’uso della drum machine è stavolta limitato), malgrado la mancanza del flauto, e ad una vena reggae/dub che da tempo pareva abbandonata.
Tra gli episodi che lasciano un segno mi piace citare “Magick valley”, con le sue suggestioni mediorientali, “Oddweird”, che fa convivere felicemente un groove sintetico, un koto e la solita chitarra esuberante di Ed, l’incanzante “Mooncalf”, che con la sua ritmica squadrata ed essenziale e le sue “synth bubbles” ci fa tornare ad “Arborescence” per poi tramutarsi senza forzature in una contagiosa traccia “dub”. Con l’eccezione della frenetica “Plant music”, fondata su un giro di basso quasi di scuola funky, nella seconda metà dell’album prevale invece la componente elettronica, qui rappresentata dalla scialba title-track, dall’etno-ambient di “Nakuru” (sarebbe adatta al progetto Nodens Ictus) e dalla conclusiva, eterea ma formulaica “San Pedro”.
Cosa aggiungere parlando di un album degli Ozric Tentacles? La band si accinge ad entrare nel suo quarto decennio di vita senza accennare ad una benché minima virata, oggi più che mai improbabile dal momento che il timone è nelle mani di un uomo solo. Garantito al 100% per chi ancora trova gioia nell’ascolto di una miscela sonora saldamente codificata da anni; personalmente non grido certo al miracolo e mantengo le riserve sul logorio della formula, ma rientro nella suddetta categoria e mi godo l’ascolto!
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Mauro Ranchicchio
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