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Quando ci si accinge a commentare un nuovo album degli Osiris, è sempre inevitabile fare considerazioni sulla loro provenienza, di quanto sia difficile suonare rock (Progressivo o meno) nel piccolo emirato del Bahrein, trovandosi invariabilmente a fornire mille scusanti e attenuanti per ingenuità o altri punti dolenti in cui il gruppo può incorrere. E' però altresì vero che questa è un'arma a doppio taglio, trovandosi invece spesso ad ascoltare con qualche riserva e sospetto quanto questi musicisti arabi riescono ad offrirci nel campo del Prog sinfonico, a differenza di quanto facciamo per un qualsiasi gruppo inglese o americano. Riuscire ad estraniarsi completamente dalle questioni geografiche appare comunque ben difficile, sia per la particolarità della situazione in esame, sia anche perché il gruppo non si esime dall'inserire nella propria musica elementi provenienti dalla cultura locale. Riguardo a quest'ultima cosa, non potremmo chiedere di meglio, tutto sommato: è bellissimo, a mio parere, quando un gruppo riesce a fondere elementi locali a stilemi classici della musica rock, anche per non cadere nella sterile riproposizione di temi iper-sfruttati da altri. E' questo che ha portato al successo, quanto meno a livello di apprezzamento da parte degli appassionati, del Prog italiano dei '70s, ad esempio, e plaudiamo senz'altro gli Osiris per la scelta musicale effettuata. Ridendo e scherzando, ci rendiamo conto intanto che quello che abbiamo in mano è il primo vero nuovo album degli Osiris da oltre vent'anni, dato che, per le uscite precedenti, si parla di live o di raccolte di inediti. Il gradito ritorno dei fratelli Al Sadeqi, ridottisi a due (Mohammed e Nabil) per l'abbandono di quello dei tre che si occupava delle parti vocali (Sabah), si presenta dunque sotto forma di un concept album. "Visions from the Past" parla della nostalgia e dei rimpianti di un vecchio del Bahrein che guarda a come è cambiato il suo piccolo paese negli ultimi decenni, rimpiangendo i tempi in cui tutti si conoscevano tra di loro. I testi sono in inglese (cantati dall'unico straniero del gruppo, il chitarrista Martin Hughes), ma all'interno di alcune canzoni sono state inserite delle poesie tradizionali locali, recitate ovviamente in arabo. Musicalmente troviamo ancora, più o meno, gli Osiris quali li avevamo imparati a conoscere dai lavori precedenti, col loro Prog sinfonico arioso, influenzato da classici quali Camel e Genesis (ma penso anche agli IQ per alcune atmosfere), su cui i nostri non si peritano, qua e là, di inserire ritmiche ed accenni che rimandano direttamente alla tradizione araba, integrandoli perfettamente all'impianto più tipicamente occidentale della maggior parte della musica. I brani sono per la maggior parte di breve durata, ma ovviamente molti di essi sono legati l'un l'altro senza soluzione di continuità, come da concept album che si rispetti. Alcuni passaggi sono deliziosi, devo dire, specie nella prima parte dell'album, caratterizzata da parti di flauto molto delicate cui si alternano pezzi strumentali con una chitarra alla Hackett, il tutto inframmezzato dalla prima delle poesie di cui parlavo. Il cantato inizia a farsi sentire all'altezza del quinto brano, che vede l'ingresso di tutta la band contemporaneamente in scena, in un pezzo un po' dal sapore new Prog. Il prosieguo del CD, tra pause d'atmosfera, momenti delicati e aperture sinfoniche in cui il suono si fa più pieno, prosegue tra alti e bassi, bisogna dire, non tanto legati a queste variazioni di atmosfera, quanto a delle tematiche musicali che a volte si fanno un po' scontate e hanno inevitabilmente il sapore del già sentito (1000 volte e fatte meglio). Ciò comunque non toglie che l'album sia molto gradevole e che sia piacevole ascoltarlo anche estraniandosi da qualsiasi considerazione geopolitica: si tratta di un disco di Prog sinfonico, sostanzialmente, fatto decentemente e con elementi peculiari interessanti; il resto può essere considerato marginale.
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