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SUNCHILD The invisible line Caerllysi Music 2009 UKR

Arrivano alla loro seconda stazione i Sunchild del tastierista ucraino Antony Kalugin che molti di voi ricorderanno sicuramente nell'ambito di quello che può essere considerato il suo progetto più significativo e valido: i Karfagen. Avevamo già parlato del primo album dei Sunchild spendendo parole in parte critiche e dubbiose, nonostante alcuni buoni contenuti che emergevano in un disco pur sempre dignitoso. Auspicavamo una migliore messa a fuoco di quelli che potevano essere gli elementi di maggior pregio di quell'esordio, "The gnomon" (pubblicato nel 2008), e a quanto pare Kalugin sembra aver lavorato proprio su quelli, migliorando l'aspetto compositivo, gli arrangiamenti e curando maggiormente la scelta dei suoni. Rimaniamo sempre in un ambito molto melodico ma in questo contesto, molto leggero ed edulcorato, vengono convogliate alcune delle caratteristiche che ci avevano fatto apprezzare i Karfagen. Mi riferisco in particolare alla tavolozza sonora, con una bella scelta di registri tastieristici che appaiono sofisticati, fluidi ed eleganti. Il sound presenta molte sfaccettature, anche grazie all'apporto di una numerosa schiera di musicisti che viene qui sfruttata sicuramente in maniera più ampia rispetto al già citato esordio. Un altro punto a vantaggio del disco è l'idea, già sviluppata nei Karfagen, di mescolare agli strumenti elettrici convenzionali alcuni strumenti della tradizione folk locale come Bayan e Bandura. L'assetto strumentale è inoltre arricchito da oboe, tromba, fagotto, sax e flicorno. Non pensate comunque ad un sound orchestrale, anche se tutto questo armamentario contribuisce di certo ad arricchire gli arrangiamenti: le sonorità di base sono quelle di un prog sofisticato e melodico, molto moderno, ma mai appesantito dalla sovrabbondanza di strumenti e privo di inutili sovrapposizioni. I pezzi sono sempre molto leggeri ma comunque curati nei dettagli e privi di richiami vintage. I punti di riferimento sembrano essere i Flower Kings, Neal Morse, i Camel dell'era moderna ed i Pink Floyd più melodici. La particolarità dell'album si gioca molto sulla varietà dei suoni e sulla scelta degli arrangiamenti, come già spiegato, che riescono a rendere interessanti scelte melodiche assai semplici e distese. Mi sembra questo un tentativo piuttosto interessante che sicuramente verrà apprezzato da chi ama il prog nella sua veste più melodica e moderna e che non cerca per forza un vintage sound molto reminiscente dei grandi classici degli anni Settanta. I momenti più belli sono rappresentati secondo me dalle due tracce più lunghe, "Time and the Tide", di circa 11 minuti, e "Line in the Sand", di circa 14 minuti, che incredibilmente riescono a mantenere alta l'attenzione pur sviluppandosi su temi musicali pacati e diluiti. Non credo certamente che questo disco rappresenti l'ultima frontiera del prog, sono comunque convinta che esso saprà soddisfare una determinata fetta di pubblico, proponendo una formula semplice, digeribile ma neanche poi così banale come potrebbe sembrare ad un primissimo approccio.

 

Jessica Attene

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