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KARFAGEN |
Spektra |
Caerllysi Music |
2016 |
UKR |
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Il tastierista ucraino Antony Kalugin riporta all’attenzione generale il nome dell’antica Cartagine con l’ottavo album della sua creatura musicale, grazie alla quale ha potuto gettare uno sguardo nella saggezza dell’antichità, celata fra miti e tracce di Storia reale. Uno di quei casi in cui l’aggettivo “magniloquente” risulta perfettamente calzante, tra sonorità molto pompose e una pletora di musicisti non indifferente. Che Kalugin in quanto compositore amasse fare le cose in grande era ormai un concetto assodato, viste le decine e decine di progetti a cui ha partecipato in un modo o nell’altro tra Ucraina e Russia; il nome Karfagen è però rimasto sempre una priorità, fin da quando era stato concepito nel 1997 per poi essere ripreso nel 2005 col relativo debutto (occorre puntualizzare che il tastierista aveva già esordito con un album solita due anni prima). Il chitarrista Max Velychko è sempre della partita, così come il fisarmonicista Sergii Kovalov, che compare su alcuni brani. Dall’immediato passato sono presenti anche strumentisti come il bassista Oleg Prokhorov o il batterista Ivan Rubanchuck, segno di un approccio in cui si tende sempre più alla coesione, nonostante la proposta – per la sua struttura – possa apparire dispersiva a priori. Album per lo più strumentale e diviso in tre “fasi”, la cui “PHASE 1” viene aperta dalla title-track, a suo modo solenne, per lunghi tratti sempliciotta come solo un bel po’ di anni fa si poteva fare per creare atmosfere da film sparluccicanti, anche se il giro di accordi non porta mai ad una conclusione scontata. Come avverrà poi per buona parte dell’album, sarà Velychko ad apportare concretezza, grazie ai suoi assoli decisi. La scelta di melodie facili ma poi mai scontate viene ribadita anche nella seguente “Troy”, con il violino di Maria Baranovska a dare epicità. Un violino che si sente anche in “Terra incognita” cantata in latino, con cori che alla lunga diventano pacchiani. Ben altra cosa è di sicuro “Celebration”, dotata di un lavoro chitarristico brillante, ricordando un po’ i cari vecchi Camel. La seconda parte è dedicata agli dei olimpici, con una suite di ventuno minuti e mezzo divisa in quattro parti. “Dionis” ha degli interessanti richiami quasi asiatici, mentre “Poseidon” - la più dura e complessa – confluisce poi nella bella “Aurora”. La terza ed ultima parte è invece incentrata più sulle strutture che nascono dal pianoforte di Kalugin, come “Natural Cherm”, forse il pezzo migliore, che diventa sempre più articolato e culmina con un bel finale di sax eseguito da Michail Sidorenko, anche se purtroppo finisce troppo presto. Belle anche la breve “Eye Witness” e “Juggler and the Cloud”, a cui è affidata la chiusura ; quest’ultima – si specifica tra parentesi – viene suonata live in studio. Dichiarazione in cui si evidenzia come il lavoro preso in esame sia in pratica frutto di tante sovra-incisioni. Sedici tracce, a dir la verità non tutte ispirate nella stessa misura; vi è scuramente un grande sforzo compositivo, ma il lavoro nella sua interezza verrà gustato prevalentemente dai super appassionati del prog sinfonico, composto magari da soluzioni che per altri potrebbero sembrare troppo “caramellose”. Ci sono comunque delle parti molto buone, che nella loro orecchiabilità si faranno davvero apprezzare. Molto bella la copertina tratta da un dipinto di Igor Sokolskiy.
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Michele Merenda
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