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MORAINE |
Manifest density |
Moonjune Records |
2009 |
USA |
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Dennis Rea, musicista di Seattle, non è un nome notissimo nel giro musicale, eppure è un gran chitarrista, ha una carriera lunghissima, avviata fin dai primi anni ’70 e partecipazioni e collaborazioni svariate. Però nulla che lo abbia in qualche modo portato ad una maggiore esposizione. Peccato, dico io. Solo recentemente, grazie alla collaborazione con i R.E.M., ha avuto un minimo di diffusione più larga. Mediamente ha navigato su lidi jazz-rock e fusion, ma il suo stile tipicamente settantiano ha molte attinenze con suoni a noi noti, in una sorta di incarnazione frippiana animata dalla intrepidezza jazz oriented di un Terje Rypdal. Nel corso dei passati lustri ha vagato per i territori di mezzo mondo con importanti tappe in Germania e Cina, assumendo influenze di vario tipo (elettronica, folk, musica tradizionale cinese, ecc.) e nel modo più trasversale. Più recentemente fonda questa nuova band, i Moraine, come quintetto, ma sottolineando che si tratta di quartet-plus-drums, quasi a voler rimarcare che il concetto parte da una sorta di musica cameristica, degenerata in qualcosa di diverso, ma che mantiene una struttura analoga. Infatti oltre alla chitarra di Rea troviamo una splendida violinista, Alicia Allen, i cui suoni sembrano generati dall’unione della rigorosità di David Cross e dalla sbarazzina incontenibilità di Akihisa Tsuboy, il violoncello spesso amaro e determinato di Ruth Davidson. Poi, ovviamente il plus della batteria di Jay Jaskot e infine, il tocco speciale e anomalo di Kevin Millard che alterna il basso con il baliste, uno strumento a nove corde pizzicate, una strana ibridazione del sitar, usato da Gurney Halleck nella saga fantascientifica di “Dune” e che qui è realizzato veramente. Si è detto delle varie influenze e di tutto quanto assimilato da Rea in giro per il mondo. Fondamentali, sicuramente, i dieci anni cinesi che saltano fuori in sottili influenze che donano un particolare tocco sonoro al tutto. Un tutto formato da poderosi set armonici intrisi di jazz rock, ma anche di forme più consone al progressive inglese, King Crimson sicuramente, ma anche riferimenti ai dischi solisti di David Cross. Da sottolineare che quando le trame si spingono maggiormente verso le forme cameristiche, pur sempre in dettami jazz, il risultato è maggiormente sperimentale e free form, avvicinando l’effetto ai recenti episodi del Martin Maheux Circle, con un distinguo per una maggiore incisività e una minore “prostrazione” grazie alle dinamiche e massicce dosi di chitarra. Undici sono i brani, non troppo lunghi, giusti per mantenere la dinamica e la concentrazione, comunque molto variabili e intriganti che vedono la composizione principale di Rea, ma anche una forte partecipazione di tutti. Un riassunto delle peculiarità è quasi impossibile vista la grande varietà sonora e le valenze che un po’ tutti brani presentano. Vale la pena ricordare però, l’esplosiva e fortemente crimsoniana opener “Save The Yuppie Breedeing Grounds” con un solo di violino centrale da brividi, la metropolitana e devastante “Ephebus Amoebus” un jazz destrutturato nel quale si incrociano temi caustici e claustrofobici con lente aperture cameristiche, le fortissime alternanze melodiche/amelodiche di “$9 Pay-Per-View Lifetime TV Movie”, forse il miglior brano del disco, il groove poderoso e sincopato di “Kuru” dove la chitarra domina una serie di alti e bassi da manuale Mahavishnu, le maggiori propensioni avanguardistiche di “Revenge Grandmother” fino alla conclusiva “Middlebräu” dondolante tra archi ipnotici e jazz funky spezzati e temi che rasentano la world music oregoniana. Gran disco, non ho remore a consigliarlo con forza.
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Roberto Vanali
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