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DENNIS REA |
Giant steppes |
Moonjune Records |
2020 |
USA |
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Il chitarrista di Seattle, con un trascorso sia nel prog con i Moraine che nella musica elettronica assieme agli Earthstar (solo per citare due dei tanti gruppi), nell’arco della sua carriera si è reso protagonista anche di altri progetti, tra cui l’organizzazione di eventi musicali come il Seaprog festival. Un artista che ha toccato ambienti di “contaminazione”, tipo il jazz e la world music, ricordando che per alcuni anni ha inoltre collaborato con importanti colleghi cinesi fino a diventare uno dei primi musicisti occidentali ad incidere per la China Record Corporation. Nel 2010, pubblica su MoonJune Records l’album “Views from chichering precipice”, che rispecchiava proprio la sua passione per le composizioni dell’Estremo Oriente. Dopo dieci anni, torna sulla medesima label con un progetto analogo, stavolta ispirato a culture musicali amene del centro Asia, ubicate specialmente in Siberia e accomunate sia dalle origini turche che da vicissitudini nazionali a dir poco travagliate. A queste si affianca la tradizione tibetana, che ovviamente fa storia a sé. Quattro lunghe composizioni, le “Steppe giganti” del titolo, dalle atmosfere evocative e che lasciano poco spazio a guizzi solisti nel senso convenzionale del termine. Si comincia sfiorando i diciassette minuti con “Live at Gaochang (Uyghur suite)”, un riarrangiamento ad opera dello stesso Rea di tre brani tratti dalla raccolta “Uyghur music of Xinjiang”; quest’ultima è una regione autonoma della Cina nordoccidentale, che si trova tra Mongolia e Russia, solo per riportare due dei tanti territori che stanno lì attorno. Quella Uigura è una minoranza etnica dalle vicende davvero travagliate, con una tradizione musicale abbastanza importante. La prima parte si apre ricreando la classica ambientazione che ci si potrebbe aspettare ascoltando le melodie di quelle terre, in cui la tradizione delle steppe si fonde col Medioriente, ben ricreate dai vari sax suonati da Dick Valentine, le corde acustiche e insistenti di Dennis e le percussioni di Don Berman. Sembra davvero di ritrovarsi in uno di quei territori sconosciuti, quasi alieni; poi la chitarra comincia ad elettrificarsi e lo spazio si condensa di psichedelia, facendo collassare su stesso il concetto di Tempo e richiamando a tratti anche i Black Sun Ensemble del defunto Jesus Acedo. Bisogna inoltre aggiungere il didgeridoo di Stuart Dempster che spezza per fare subito dopo da collante e infine da chiusura, il corno francese elettrico di Greg Campbell e quindi la tromba abrasiva di Greg Kelley, per un finale in cui le terre aride vengono spazzate dai venti inesorabili. Il collage che ha dato vita alla nuova composizione ha di sicuro un effetto straniante, che approda ad uno stato di visionaria ipnosi con l’inizio di “Altai by and by”, in cui è protagonista il gruppo folk polifonico russo “Juliana & PAVA”, stanziato a Seattle (USA). Qui vengono riprese due canzoni dalla tradizione proveniente da Altai Krai (letteralmente: “Regione Altai”, nella catena montuosa di Altaj che si snoda tra Cina, Mongolia e Russia), nel distretto siberiano. Sembrerebbe di ascoltare i cori dei pastori nomadi che hanno da sempre popolato queste terre aspre, di tanto in tanto supportate dalle note centellinate dalla chitarra elettrica di Dennis, fino ad arrivare ad un apice vocale che sembra davvero inquietare la psiche con delle frasi e dei vocalizzi urlati. Più di otto minuti sembrano comunque essere tanti. Ma è solo l’anticamera della successiva dimensione in cui ci si sta per immettere. “Wind of the World’s Nest” inizia col cantato minaccioso, quasi da death metal ad opera di Albert Kuvezin, su una struttura che estrapola alcuni frammenti da “Baezhin”, canzone tradizionale del popolo di Tuva. Questa è una repubblica russa indipendente nella zona siberiana centro-meridionale, sempre lungo il confine mongolo, che dal 1921 al 1944 (in cui fu annessa alla Russia) era uno Stato indipendente. In tale luogo convergono le tradizioni mistico-religiose più disparate, come il buddismo tibetano, lo sciamanesimo e persino l’ortodossia scismatica. Una storia complessa, intrecciata con l’impero cinese e con la tradizione lamaista; sul piano musicale è noto il loro cosiddetto canto difonico (detto anche canto armonico), col quale si dà vita ai suoni della natura ed una sola persona può emettere con la propria voce due o tre note armoniche contemporaneamente. Il pezzo preso in esame vede in alcune parti un approccio assolutamente crimsoniano, alternato per quasi dieci minuti a un vivace andamento tipicamente popolare. Sono i fiati del solito Dick Valentine a dare una connotazione jazzata, poi di colpo intervallati dalle tenebrose note vocali di Kuvezin. La sezione ritmica basso/batteria - formata rispettivamente da Wadim Dicke e Brian Oppel - turbina nella neve siberiana mentre Dennis Rea fa scivolare le sue note, poi inghiottite dal pozzo senza fondo ricreato da Kuvezin. Sembra finita… ma i King Crimson tornano prepotenti nel finale, come se Robert Fripp fosse voluto andare a vedere che aria tirava da quelle parti. Si chiude con i quattordici minuti abbondanti di “The Fellowship of Tsering”, composizione molto viva, composta prendendo spunto da due canzoni del cantautore tibetano Jampa Tsering (scomparso nemmeno quarantenne nel 1997). Titoli rimasti sconosciuti, in quanto le canzoni erano contenute su una classica musicassetta scritta a mano, acquistata dalla moglie di Rea a Lhasa nel 1989. Per quattro minuti il pezzo scorre liscio grazie alle tastiere di Steve Fisk, poi si piomba di colpo nelle tenebre, con rumori strani, vento e fiamme che ardono. Nemmeno a dirlo, si odono pure i suoni spaventosi di Kuvezin. Dopo, tutto riprende come prima, sorretti anche dalla chitarra che si fonde con gli altri strumenti. Forse si tratta del lavoro più elaborato di Dennis Rea, in cui si può cogliere l’eco delle dissonanze progressive presenti su “Groundswell”, album dei suoi Moraine pubblicato sempre su MoonJune nel 2016. Di sicuro, si dimostra molto più vario e valido del titolo pubblicato un decennio prima per la label di Leonardo Pavkovic. Come accaduto all’epoca, l’artista statunitense ci ha scritto su anche un libro. “Tuva and Busted”, questo il titolo, è un eBook gratuito disponibile come pubblicazione congiunta per concessione della Blue Ear Books, in collaborazione con la succitata casa discografica. È una lettura molto interessante, in cui si ritrova un Rea impegnato in tante avventure tra quelle terre lontane, persino come giudice in una gara di canto definita… di gola. E poi la stesura dell’album, con aneddoti davvero interessanti e spesso divertenti. Un lavoro da sentire con molta attenzione e da leggere con rilassatezza.
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Michele Merenda
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