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IRON KIM STYLE |
Iron Kim style |
Moonjune Records |
2010 |
USA |
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L’impressione è che si stia provando a forzare la materia. Che si stia tentando di spremere quel carbonio grezzo del jazz sporco davisiano per creare diamanti. Ma non tutti dispongono della forza pressoria e del calore necessario a mutare la materia, come invece Davis o pochi altri hanno fatto. Questi Iron Kim Style sono una band di Seattle dedita ad un jazz rock generato dall’improvvisazione, dalla spontaneità. Si cimentano anche loro nel tentativo di trasformare il carbonio in diamanti e devo dire che siamo all’ascolto di uno dei migliori recenti tentativi. La band è formata da cinque elementi, tra i quali spicca il nome di Dennis Rea, brillante chitarrista già ottimamente apprezzato con i Moraine. Un secondo chitarrista Thaddeus Brophy si occupa di riempimenti fatti con la 12 corde elettrica, una sezione ritmica nerboruta vede Ryan Berg al basso e Jay Jaskot alla batteria. In alternanza alle parti soliste di Rea troviamo la tromba di Bill Jones e, in due brani, il clarinetto basso di Izaak Mills. La band così composta è atipica, ma estremamente intrigante, mancando di quell’elemento tastieristico sul quale gran parte del jazz rock crea le proprie fondamenta. Jazz rock progressivo quindi, molto sperimentale e d’avanguardia, nel quale si fondono culture antiche che, però, non sanno perdere di vista il suono moderno, elettrico e frenetico che li rende attuali e consapevolmente centrati. Altro elemento di distinzione è generato dalla varietà d’ispirazione con la quale l’ensemble si muove. Non solo Davis, verrebbe da dire. Jazz londinese settantiano (Soft Machine, Nucleus), qualcosa di crimsoniano, non solo nell’esposizione trombettistica di Jones che talvolta strizza l’occhio al grande Charig, ma anche in certe parti dove la chitarra si fa ritmo e non solo musa Euterpe delle note, come in certi passi dell’opener “Mean Streets of Pyongyang”. Negli schemi della band pare siano del tutto assenti forme di scrittura, lasciando che il risultato sia generato dall’improvvisazione, questo, ovviamente, porta anche a porzioni piuttosto libere, come il funky destrutturato di “Gibberish Falter” o la lisergica e intricatissima “Pachinko Malice” che sembra nata dalla spuma di album come “Extrapolation”. Non mancano zone più eteree con passaggi misteriosi e più intimistici, come in “Adrift” o in “Amber Waves Of Migraine”. Ancora più atipici i due minuti e mezzo di “Jack Out The Kims” un jazz-punk primordiale, deturpante e deturpato, inutilizzabile per qualsiasi ascolto “leggero”, una vera mazzata musicale alla quale, sul finale, tenta di dare un ordine la tromba di Jones, ovviamente senza risultato.
Che dire, un ottimo disco, difficile, complesso. Indirizzato, purtroppo, a pochi, a quei pochi che sapranno godere del suo fascino.
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Roberto Vanali
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