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BORIS SAVOLDELLI |
Biocosmopolitan |
Moonjune Records |
2011 |
ITA |
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Boris Savoldelli non è alla sua opera prima. Arlequins ne ha già parlato, ritengo quindi superfluo tracciarne nuovamente il profilo. Il suo stile si presenta sempre più consolidato e le dinamiche vocali create sono così ricche e brillanti da lasciare a bocca aperta. La varietà di presentazione è così ampia che riesce ad abbracciare generi e forme musicali della più svariata natura: blues, gospel, jazz, progressive, rock, latino americano, ecc. ecc.
Tecnicamente si tratta dell’incisione di svariati loop vocali, che ruotano su loro stessi, simulano gli strumenti, i suoni della natura e formano la ritmica e la base armonica dei brani in una sorta di tantra sciamanico. Sopra a questa base si muovono le melodie, talvolta (quasi) lineari, talvolta complesse e mutanti. Lascia letteralmente sbigottiti il pensiero del lavoro che si nasconde dietro al risultato finale: studi armonici, arrangiamenti, incisioni, sovra incisioni, prove, riascolti, ancora prove e ancora riascolti. La fatica è certamente premiata dal risultato e ogni brano crea un mondo sonoro particolare, tutto da scoprire.
Comprese le bonus track, parliamo di 16 brani, nei quali i piani sovrapposti, che compongono la costruzione d'insieme, diventano tutti leggibili sia per proprio conto, sia fusi nella complessità del prodotto finale. Questo consente un maggiore apprezzamento e un ascolto differenziato, che riesce a rinnovarsi ogni volta, ma che, al contempo, è fruibile anche con una lettura più superficiale.
I brani sono molto omogenei nel concetto costruttivo descritto e sono dotati di una grande e giocosa espressività: le indubbie capacità dell’autore ci fanno apprezzare la moltitudine di idee messe in gioco. In alcuni brani entrano strumenti “veri”, sono episodici e rappresentano un tocco in più. Esempi ne sono il pianoforte di “Biocosmo”, la tromba e il filicorno di Paolo Fresu in “Concrete clima” e in “Keruac in New York City” e il basso di Jimmy Haslip nella title track, con un movimento veramente notevole. Viaggia invece per conto proprio la citata “Biocosmo”, costruita più come “canzone”, dove la voce è supportata solo dal pianoforte, suonato dallo stesso Boris, bella la melodia, intenso il testo. Tra le altre tracce del disco da citare “The Miss Kiss” in odore anni jazz ’40 con tanto di fruscio del grammofono in sottofondo e un finale in cui la voce si fa sguaiata, per una perfetta imitazione della tromba con sordina, che si lancia in un tipico assolo. Ho apprezzato molto la rotondità di “Keruac in New York City” giocata tra inglese e italiano, con ironia e con la storiella della: “Mosca che si beve la mia bibita del cuore, annega di liquore, annega e dopo muore …”. Spettacolare è la costruzione di “Dandy dog” che si piazza a metà strada tra un canto polifonico sardo e quelli dei Gentle Giant. La cosa da tener bene presente è che, tralasciando “Biocosmo”, i testi non sono i protagonisti ma sono sempre frammenti del tutto e le parole narrate hanno lo stesso valore delle voci ritmiche o di quelle della tessitura di base. Altro dato da considerare è che la parte ritmica è eseguita con la bocca, tramite emissione e vibrazione delle corde vocali e quindi, a differenza della batteria che è atonale, ha una nota di uscita, che ovviamente deve combinarsi con il resto melodico.
Diciamolo chiaramente: Boris riesce a fare con la voce, ciò che chiunque, dopo aver almeno una volta nella vita provato a cantare, vorrebbe fare. Questo genera una sorta di invidia, mista ad ammirazione e la spettacolarità della sua esibizione canora non si esaurisce con il tempo del singolo brano, ma riecheggia nella mente riempiendola di sonorità e di armoniche, che rimbalzano mantenendo una grande forza. Che tutto questo assomigli a quella cosa che comunemente chiamiamo “arte”?
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Roberto Vanali
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