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In decenni di storia del rock sono stati ideati una marea di concept album aventi come soggetto le storie più disparate, basate su situazioni reali o fantasiose, più o meno deliranti, pretenziose, filosofiche, storiche, religiose, fantascientifiche, politiche, belliche, mistiche, mitologiche, poetiche, letterarie e una miriade di tante altre, tali da poter essere oggetto di un trattato (o di un ulteriore concept album!) sulla magnificenza dell’immaginazione umana. La storia di un uomo che rimane bloccato in ascensore per diversi giorni, quindi, ha per quanto mi riguarda il solo effetto di strapparmi un sorriso, pur considerando le implicazioni psicologiche insite nella vicenda. Eppure i Mogador, nella persona di Richard George Allen, non hanno paura di farne il tema del concept di “All I Am Is Of My Own Making”, titolo che a prima vista appare come la dichiarazione di una piena realizzazione di un sogno americano.
Giunto al secondo album, il trio anglo-italiano dei Mogador propone un rock melodico che pesca a piene mani da suoni e atmosfere tipiche di certo prog moderno avente i suoi punti di riferimento in band come Flower Kings e Spock’s Beard, puntando sulla varietà di temi e atmosfere ma lasciando inevitabilmente in secondo piano l’originalità. Evidenti anche i riferimenti storici agli Yes ed ai Genesis, con un risultato finale che rappresenta un impasto ben amalgamato di progressive e pop basato su melodie e temi di presa apparentemente facile ma arricchito da passaggi calibrati che cercano evitare l’effetto noia, molto pericoloso in questo tipo di produzioni. L’album ha il pregio di scorrere via abbastanza liscio, diviso tra sezioni basate sulla forma canzone (con testi in inglese) e altre sulla fantasia strumentale. Lasciando da parte i dettagli della storia, possiamo analizzare ogni singola traccia: “Unexpectedly, Friday” strizza l’occhio allo stile compositivo di Roine Stolt, “Deep in Trouble Deep”, abbraccia AOR e hard rock, “Panic!” è un ben riuscito esempio di furore strumentale, i due minuti di “So Cold”, con la voce esile sospesa su un intro arpeggiata e sulla chitarra acustica, richiamano sapori a base di Yes-sound, mentre “One Day” è una ballata melodica e d’atmosfera per piano, suoni d’archi, cori e una voce solista alla David Sylvian. “Sweet Liberty” e Homely Smells Again” si basano su un pop progressivo leggero, incolore ma ben studiato, così come “A New Beginning”, dall’andamento però più rilassato e accattivante. La track conclusiva, quella che dà il titolo all’album, emana profumi floreali che ricordano i Beatles più canzonettari (quelli di Paul McCartney, per intenderci), distaccandosi leggermente dai titoli precedenti e mettendo il sigillo ad un album discreto ma carente di personalità. “All I Am Is Of My Own Making” sembra studiato apposta per piacere, e si regge sullo stile compositivo ispirato a band che basano sul manierismo e sull’estrema costruzione della musica le loro fortune. L’album in definitiva è piacevole da ascoltare, a tratti è fastidiosamente rassicurante nel non proporre nulla di nuovo, ed è di sicuro interesse per gli amanti della melodia a tutti i costi.
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