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Terzo album in tre anni, ancora una volta omonimo e come al solito composto da tracce senza nome. Il numero di musicisti si va gradualmente riducendo; se nel secondo lavoro non era piů presente il sassofonista Levente Lukács, adesso le parti di chitarra sono affidate al solo Péter Takács, che si continua ad occupare anche di tromba e flauto (quest’ultimo suonato pure da Miklós Paizs, responsabile anche delle parti di clarinetto). Il sound appare subito piů coeso e parecchio professionale, iniziando a lasciare spazio ad effetti dettati da samplers e sequencers. L’elettronica inizia dunque a fare capolino, soppiantando pian piano le trovate etniche che permettevano di creare dei trip ipnotici senza far ricorso a congegni artificiali. Una scelta che porta i magiari nettamente lungo la strada seguita dagli Ozric Tentacles, che in sé non č certo un male, ma sicuramente non li propone piů come una proposta alternativa ad un fenomeno giŕ di per sé consolidato. Come il gruppo di Ed Wynne la psichedelia e la ricerca etnica sono ormai totalmente assorbite dallo space, anche se la ripetitivitŕ di certi temi fa dei musicisti di Budapest una versione piů dilatata ed allo stesso tempo inquietante, priva cioč di quella solaritŕ tipica della band inglese di riferimento. Il cambiamento di rotta č piů che evidente giŕ dal primo pezzo, mentre il seguente, con quella chitarra tagliente e acida, assieme ad un flauto “ballerino”, non puň non far venire in mente la musica degli onnipresenti Ozric. Anche se le percussioni sono sempre lě, in primo piano, matrice di una band che comunque mantiene la propria connotazione. Rock spaziale e duro nel terzo pezzo, in cui stavolta l’accostamento, per capire di cosa si parla, potrebbe essere fatto con gli svedesi DarXstar ed ovviamente con i ben piů famosi Hawkwind. Anche se in quasi dieci minuti c’č modo di ascoltare altri spunti originali, come la tromba inserita poco prima di alcuni sinfonismi cosmici. Takács si ripete nella traccia n. 4 lunga tredici minuti, ormai impegnato a pieno regime, dove le voci di Tibor Vécsi e la tromba danno vita ad una specie di space reggae cadenzato. Un minuto di intermezzo soffocato e poi si passa ad uno dei momenti migliori, il sesto brano, in cui il folclore torna in primo piano grazie ad un uso dei fiati stile Gong, voci di culture a noi sconosciute ed ancora un eccellente Péter Takács. Altro stacco di pausa e poi conclusione (si fa per dire…) con i diciotto minuti della numero otto, in cui l’ascoltatore potrŕ fluttuare nello spazio, lontano dal mondo terreno. Stavolta č il batterista Viktor Csányi a fare la parte del leone, accompagnato da vocalizzi arabeggianti che avvolgono la mente. Nel 1997 i Korai Öröm avrebbero poi suonato sul grande palco del Pepsi Island, di fronte a diecimila persone. Testimonianza evidente che la loro notorietŕ si era ampliata molto velocemente. E di questo terzo lavoro che dire? Sicuramente molto buono. Fatti salvi gli appunti iniziali, forse č una delle migliori opere del settore. Sta agli ascoltatori, soprattutto quelli della prima ora, stabilire se questo puň essere loro sufficiente o se il gruppo avrebbe potuto costruire qualcosa di comunque grande seguendo le basi precedenti.
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