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ASTRA |
The black chord |
Rise Above Records |
2012 |
UK |
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Malgrado i numerosi e, perché no, i doverosi distinguo, l'album d'esordio degli statunitensi Astra “The weirding” del 2009 aveva convinto un po' tutti gli appassionati. Le sonorità orgogliosamente e rigorosamente vintage, un pizzico di psichedelia, un altro pizzico di hard rock, qualche sprazzo “space”, le sonorità calde di Mellotron e Hammond... Insomma sembrava proprio che la macchina del tempo non fosse più mera utopia, ma che avesse materializzato i cinque freak americani provenienti direttamente dai primi anni '70. Motivi più che sufficienti perché il come-back, “The black chord”, fosse investito da curiosità ed aspettative notevoli. Già le prime note di “Cocoon” si muovono sul sentiero tracciato da “The weirding”: l'intro floydiano, la lunga cavalcata strumentale con il continuo rincorrersi di chitarre e tastiere. La title-track di quasi 15 minuti è uno dei momenti più significativi dell'album: cascate di Mellotron, sonorità cupe ma non troppo, voce “effettata”, suono compatto e praticamente nessuno squarcio di “sereno”. Visionaria ed ossessiva “Quake meat” a ricordarci che non di solo hard rock si nutrono gli Astra. Come già nell'album di debutto anche qui non manca il brano d'atmosfera, la piacevole “Drift”. L'interludio elettrico di “Bull torpis” è unito al brano conclusivo “Barefoot in the head”. Le influenze sabbathiane, degli Heep, dei Floyd si fondono con i King Crimson di “Red” e con le ossessioni hammiliane, facendo del brano un mosaico sonoro di indubbio effetto e di riuscita sintesi (anche se grida vendetta la brusca ed incomprensibile interruzione finale). Un ottimo ritorno, dunque, magari leggermente inferiore allo sbalorditivo esordio perché svanito inevitabilmente l'effetto sorpresa e poiché privo del brano “che spacca” che aveva il predecessore.
Album comunque consigliatissimo. Con i soliti “distinguo”. Ovvio.
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Valentino Butti
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