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ASTRA |
The black chord |
Rise Above Records |
2012 |
UK |
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A distanza di tre anni dall’ottimo esordio “The Weirding”, tornano gli statunitensi Astra con questo secondo lavoro. Li avevamo lasciati con la speranza di risentirli presto con nuove composizioni, così da testarne la forza e la tenuta ed eccoci accontentati. “The black chord”, analizzato in prima battuta nei suoi dati più diretti, evidenzia la conferma della formazione ma non della lunga durata del predecessore, rispetto al quale si nota un taglio di oltre mezz’ora, con l’orologio che si ferma sui 47 minuti complessivi. Le prime impressioni, invece, riferite all’ascolto e quindi più agli aspetti emozionali, vedono un’altra conferma nello stile, che ben punteggia prog sinfonico e space su atmosfere molto dense e particolarmente piacevoli e una impostazione sonora, molto compatta, coerente e omogenea dove gli spazi sonori si allargano a piacimento su strutture spesso complesse, ma sempre di ampio respiro, secondo una tipica impostazione del progressive storico. L’avvio decisamente floydiano di “Cocoon”, sembra voler mettere in chiaro alcune cose e, proseguendo l’ascolto, si può dire che questo avvio, pur non rispecchiando l’intero lavoro, indichi la strada in maniera abbastanza trasparente. Gli intrecci sonori tra le chitarre e le tastiere, sono molto intriganti, ma l’apoteosi avviene quando saltano fuori ben due mellotron, se poi vogliamo unire il tutto ad una base ritmica (Hurley alla batteria e Sclater al basso) generalmente solida e ben studiata, ecco un risultato sicuramente positivo. In questo è esemplificativa la lunga title track, brano nervoso e spigoloso, sorretto da un cantato acido ed effettato, dai tratti persino sorprendenti e apparentemente usciti da un disco dei primissimi anni ’70. Continui cambi e assolo si avvicendano, rotolando verso un finale dove i temi di hard prog psichedelico si sommano, in una vera esplosione sonora. Ma, a mio parere, è un brano breve che rappresenta il gioiello del disco, quella meraviglia di “Drift”. Il brano viaggia in ambienti elettroacustici, sfruttando basi crimsoniane ricche di splendida melodia e aperture sinfoniche che riportano ai Moody Blues e ai tanti gruppi che qualcuno con un brutto termine vuole definire come proto prog. Impossibile non citare anche la lunga e conclusiva “Barefoot in the head”, brano deciso, definito, ricchissimo, spesso un muro sonoro trascinante e pregno di rimandi giocati in maniera sempre personale e consona. Saltano fuori sonorità che ci riportano a Yes, Traffic, Pink Floyd, Hawkwind, King Crimson, molto piacevoli, talvolta centellinate, talvolta e volutamente riversate in gran quantità. All’apertura, non si può non ritrovare i Floyd di “Saucerful” e di “Meddle”, ma il brano è un maelstrom crescente dove le chitarre di Ellis e di Vaughan si scontrano con i muri di tastiere di Riley nel furibondo finale, dove ritornano i temi di hard prog sinfonico, sempre filtrato e reso nervoso con l’aggiunta di space psichedelico, come sopra descritto. Fa piacere, in fondo, sottolineare anche i begli interventi di flauto del batterista Hurley, che contrappuntano momenti di ottima liricità, caratteristica che, per come la vedo io, resta la loro migliore e che infatti esplode nel migliore dei modi nei momenti di cantato. Forse, nell’ottica di un ulteriore e sempre auspicato miglioramento, la band potrebbe tentare di definire meglio i suoni, specie della batteria, che, soprattutto nei momenti di grosso impatto sonoro, tendono ad essere un po’ confusi. Non riesco a definire se sia meglio questo disco o “The Weirding”. Certo questo mi pare più progressive in senso ampio del termine, forse l’esordio aveva qualche spunto, qualche idea in più. Ad ogni modo una bella conferma con un disco piacevole e sempre interessante anche con più e più ascolti, certamente promossi.
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Roberto Vanali
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