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NEKTAR |
A spoonful of time |
Purple Pyramid (Cleopatra Records Inc.) |
2012 |
GER |
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Insieme dai primi anni ’70, con i piedi in Germania e la coda in Inghilterra, questa band riuscì ad infilare di seguito cinque, sei album ben sopra la sufficienza e con almeno un paio di ottima fattura, puntando su un progressive dalle forme floydiane di space psichedelico. Con varie interruzioni temporali e conseguenti reunion, li ritroviamo a festeggiare una lunga carriera, un probabile blocco compositivo e un album di cover. Considerato che della band storica sono ormai presenti solo Roye Albrighton, chitarra e voce e il batterista Ron Howden, per le registrazioni è stato inserito il tastierista Klaus Henatsch, già con i tedeschi Jane in occasione del terribile “Beautiful Lady”. Oltre a questo trio, coadiuvato in diversi brani da Billy Sherwood (basso, tastiere, chitarre, voce e mixing finale), il lampo di genio che ha accompagnato questa riproposizione, ha previsto di invitare una serie di superstar in qualità di ospiti d’onore nei brani. Qualche nome o vedremo più avanti. E’ chiaramente soggettiva la scelta dei brani da proporre in un cover album e quindi di difficile disquisizione. Le motivazioni saranno le solite: il brano che piaceva tanto da ragazzi, il classicone che tutti avremmo voluto comporre, il pezzo che accompagnava quella o quell’altra storia d’amore, un brano ruffiano per attirare qualche compratore in più e così via. Ne viene fuori una scaletta estremamente eterogenea, dove si affiancano brani di prog, hard, AOR, rock, rhythm and blues, country, pop, soul, funky, tutti rifatti tentando di dare uno stile proprio e confezionare il lavoro con una compattezza quantomeno sufficiente. Alcuni brani mi sono parsi decisamente più nelle corde del gruppo e dei loro ospiti, altri decisamente lontani e quasi fuori luogo, dei veri azzardi. Vista la tipologia del lavoro, credo, mio malgrado, si debba finire in un track by track. Ho sofferto io, soffrirà pure il lettore. Il lavoro si apre con un brano molto adatto alla band, forse il più adatto. Si tratta di “Sirius”, originariamente proposto dall’Alan Parson Project nell’album “Eye In The Sky. Versione abbastanza fedele all’originale. Qui l’ospite è Michael Pinnella dei Symphony X. Segue un famosissimo brano dei Rush, “Spirit of the radio” con ospite Mark Kelly dei Marillion. Discreta la riuscita, persino nel cantato che, seppur diverso, non è da buttare. Terrificante la successiva “Fly like an eagle” della Steve Miller Band con Geoff Downes alle tastiere, brano ridotto ad un moscio pop radiofonico. Imbarazzante aver chiamato niente po’ po’ di meno che messer Edgar Froese a suonare le tastiere su una floydiana “Wish you were here”, specie per la riuscita davvero modesta e un finale da esplosione poppettara e danzerina. Groove, funky e monotonia per l’unico brano che proprio non conoscevo. Si tratta di “For the love of money” dei The O'Jays, con un riduttivo apporto alla batteria del pourpleiano Ian Paice. A ruota, “Can't Find My Way Home” dei Blind Faith, uno dei migliori episodi del disco e con ospiti a profusione: Steve Howe alla chitarra, Derek Sherinian alle tastiere e Mel Collins al sax, fedele la riuscita. Senza speranza di potermi neppure un po’ interessare è la rollingstoniana “2000 Light Years From Home”, un rocketto leggero, leggero che qui, suonato da un batterista, migliora sensibilmente. Il grande Rod Argent, accompagna la band per una “Riders on the storm” piuttosto ben riuscita e sopra la media del disco, anche se si è deciso per una ritmica troppo secca, asciutta. È stato scomodato Ginger Baker per “Blinded by the light” incisa prima dal suo autore Bruce Springsteen, ma qui orientata verso la successiva versione della Manfred Mann's Earth Band. Il brano è quel che è e viene mantenuto piuttosto fedele alla versione di riferimento. Nella successiva l’ospite è Simon House degli Hawkwind che rende un po’ più acida la splendida “Out of the blue” dei Roxy Music in una versione sempre piuttosto fedele all’originale ma senza, ovviamente, reggere il confronto vocale. La ricerca del tipo country rock di Neil Young trova appiglio per una cover della notissima “Old man”, integrata dal violino sempre smagliante e intrigante di David Cross. Ancora violino nella successiva “Dream Weaver” di Gary Wright con uno scoppiettante Jerry Goodman, che comunque non riesce ad sradicare lo stile da classico rock radiofonico americano. Sul finale i Nektar puntano sulla arcinota “I’m not in love” dei 10CC, discreta la riuscita punteggiata da un sornione Rick Wakeman, che ci regala anche un breve solo al synth. A chiudere il lavoro un altro classicone AOR: “Africa” dei Toto, ospiti Patrick Moraz ex Yes e Bobby Kimball, ex Toto. Vediamo di trovare un finale a questa lunga disamina. Il disco non mi è piaciuto, non mi è piaciuta l’idea, non mi è piaciuta la scelta dei brani, né il loro arrangiamento. Tutto è privo di personalità, può essere una scelta quella di essere fedelissimi agli originali, ma non mi sembra il miglior biglietto da visita in un tempo in cui la fantasia è finita nel dimenticatoio e si poteva, almeno, tentare di esprimere qualcosa al livello di arrangiamenti. E allora che fare? Ascoltare, almeno per curiosità e mettere in un angolo, ad esempio.
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Roberto Vanali
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