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Giovani, giovanissimi, alla ribalta del progressive rock. Cosa assai rara, ma davvero interessante. Emanuele Tarasconi, tastierista di formazione classica, in quel di Parma con la sua band, produce nel 2012 un EP demo che salta all’orecchio di Messer Zuffanti, subito il contatto in Mirror records, campo libero per il CD full legth, incisione e produzione negli studi di Genova. Be’, così è farla breve, ma tanto quel che conta è il risultato. Nel citato EP erano compresi tre brani, che qui comunque ritroviamo, ma originariamente cantati in inglese. Fuori di dubbio che la scelta di passare ai testi in italiano sia pienamente azzeccata. Il risultato allontana in maniera netta quel senso di freddezza e di distacco generato nell’EP dalla lingua albionica e si sposa meglio con le calde atmosfere dark del lavoro. Se l’utilizzo della lingua italiana ha migliorato, decisamente, alcuni aspetti, ha rigenerato il solito e ritrito problema per prog nostrano e della dicotomia parti cantate – parti strumentali. Trovo infatti che sia sempre più difficile e raro trovare dischi dove entrambe le parti siano sullo stesso livello e, anche in questo caso, trovo che le parti musicali siano decisamente meglio rispetto ai cantati. I motivi possono essere molti, forse soggettivi e non sempre così definiti, ma non posso fare a meno di notare una forte semplificazione delle strutture durante i cantati rispetto ad un più articolato, complesso e piacevole scorrere delle altre parti. Il risultato è, a parer mio, quello di trovare spettacolari, maestose ed elaborate trame strumentali e più banali e spesso tendenti al pop porzioni cantate (ovviamente non succede sempre, intendiamoci). Dicendo questo non certo accusare questo lavoro, tantomeno indipendentemente dal resto del progressive italiano, visto che,in effetti, è un fatto piuttosto tipico. Esempio ne è l’opener “Dell’innocenza perduta” idealmente suddivisibile in tre tronchi separati: lo splendido avvio con un magistrale sviluppo poliritmico 5/4 – 7/4 – 13/4, il finale molto sinfonico, ricco, coinvolgente e, in mezzo, il cantato, su semplice e quadrato giro armonico. Punto determinante è da sottolineare con forza è non considero le parti cantate brutte, anzi, dico solo che viaggiano su sentieri talvolta troppo diversificati, determinando problemi di stacco, rientro e collegamento con le precedenti e successive sezioni strumentali. Altri aspetti legati alle parti cantate e spesso criticate nel prog italiano sono la qualità intrinseca della voce e i testi. Per il primo dico che la voce di Tarasconi a me non dispiace, ma non nego che un cantate più finito ed esperto eleverebbe ancor più il prodotto finale. Meno buona trovo la parte cantata dal’ottimo bassista Francesco Orefice in “Atlantis”, forse più adatta al momento narrativo, ma non troppo centrata armonicamente. Per quanto riguarda i testi siamo all’ascolto di trame piuttosto dark che, fedeli alla citazione del titolo del CD, portano l’ascoltatore in un gorgo di disperazione, di crudeltà e di follia infinita. In un mondo ctonio dove la materia, umana e non, si intacca, non già o non solo per il tempo, ma perché essa stessa è corruttibile e sempre perfettibile. Tutto è desolazione, allontanamento dalla luce e dallo spirito più positivo e speranzoso. Anche dove i testi si legano a fatti leggendari, ammantati di mistero, tutto è incubo, è inferno e sabba. Le parole sono sempre da premessa per la tragedia imminente alla quale si è inevitabilmente portati a seguito di colpe, di vani tentativi di espiazione e di dannazione finale. Quindi, le narrazioni vertono con prevalenza attorno a questi temi pagani, dove, chiaramente, l’arcano è protagonista tra umida bruma avvolgente, odore di radici, di muschi e di favole antiche. Veniamo agli aspetti musicali, a mio avviso la parte migliore del lavoro: i suoni vintage sono i veri protagonisti con un fiume di tastiere sempre in movimento. Grande dimostrazione di tecnica da parte di Tarasconi, con la sua impronta stilistica a metà strada tra Premoli e Nocenzi. Tecnica sempre al servizio di temi caldi e ricchi di pathos. E’ decisamente piacevole scaldarsi e intrufolarsi tra le fitte tessiture degli assolo e dei tappeti, anche quando fanno da sfondo agli arpeggi e ai movimenti di chitarra della brava Francesca Zanetta, come nel poderoso inizio di “Atlantis”. Di tanto in tanto, ma direi che è ormai inevitabile, salta fuori qualche momento che sa di già sentito, come le citazione dadaistico psichedeliche (volute?) del finale di Catabasi, che riprendono i temi dei primi Soft Machine o dell’inizio di “Dove la luce è più intensa” piuttosto analogo a varie cose del Banco tipo “L’albero del pane”. Tra tanti sinfonismi e tanti piani sovrapposti ora energici, ora più tenui, ecco spuntare vaghi e brevi accenni funky (“Dove la luce …”) o jazz blueseggianti (“Ecate”) o spunti hard (“Catabasi” e ancora “Ecate”). A chiusura del disco arriva l’agognata suite. “Horror Vacui” nei suoi quasi 18 minuti rappresenta la summa del lavoro e, tra una montagna di tempi dispari, sempre ben portati dall’agile drummer Federico Bedostri, innumerevoli solo di tastiere e di chitarra, arriva il cantato, nello stile che ho descritto all’inizio della disquisizione e quindi decisamente più orecchiabile rispetto al resto. Ancora qualche lieve sbuffo new prog al centro della del suo fluire e verso un finalone più scorrevole e dai tratti epici. Avviciniamo la conclusione dicendo che questo, nella sua complessità, è un ottimo album. Un lavoro che denota grande passione e coinvolgimento, maestria nella composizione e nell’utilizzo degli strumenti. Un’opera che si inserisce di diritto, puntando immediatamente ai vertici, in quel genere dal sapore retrò che tenta di rispolverare suoni e modi settantiani del nostro amato progressive. Stringendo il discorso, resta da dire solo che il disco, pur con qualche necessità di maggior esperienza, è davvero consigliato.
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