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Nel 2013 i parmensi Unreal City avevano debuttato con “La crudeltà di aprile”, facendo subito parlare di loro in termini molto positivi. Al di là degli entusiasmi iniziali, un’analisi di quel prodotto, che sia oggettivamente al di sopra delle parti, non può non indicare nella proposta un vero e proprio revival del prog sinfonico italiano anni’70 (citando persino qualcosa dei Goblin…), la cui validità attuale può variare a seconda delle opinioni di ciascuno. Fatto sta che quanto proposto dagli Unreal City sembrava gravare per buona parte sulle ampie spalle del tastierista, cantante e leader Emanuele Tarasconi, il quale – nonostante tutti gli altri fossero dei validi strumentisti – in studio oscurava con la sua lunga ombra i compagni d’avventura. E a quanto pare in concerto il fenomeno aumentava in maniera esponenziale, almeno per i primi tempi. Un ruolo tanto lusinghiero quanto pericoloso quello assurto dal keyboards wizard nostrano, che alla lunga poteva anche – paradossalmente – sminuire quanto di buono fatto oggettivamente sino a quel momento. Tarasconi potrebbe anche essere accusato di stravagante megalomania (visto anche il… costume di scena con cui si presenta dal vivo e nei video. Andatevelo a vedere!), ma di sicuro denota una mente speculativa, capace di guardare molto più avanti di tanti altri e di interiorizzare verità che in pubblico forse non ammetterebbe nemmeno sotto tortura. Il sequel uscito ai primi del 2015, che comincia proprio laddove il suo predecessore si era interrotto, ne è la prova manifesta. L’ascoltatore era stato lasciato tra i dubbi esistenziali che affondavano nell’abisso oscuro dei delitti umani, con la accennata possibilità di sviluppare nella giusta direzione le complesse coordinate musicali. Beh, Tarasconi e soci hanno fatto centro! Innanzi tutto la scaltrezza di aver scelto il filo conduttore di questa sorta di concept, che in maniera immaginifica conduce per varie esperienze oniriche e quindi, in una specie di delirio dai contorni irreali tipici dell’ora del crepuscolo più avanzato, ecco la possibilità di poter cantare e suonare più o meno ciò che si ritiene arbitrariamente più opportuno. Un titolo come “Oniromanzia (il paese del tramonto)” sembra già dire tutto. E poi, in questi due anni tutta la band (mastermind compreso) sembra essere cresciuta parecchio. Le tematiche saranno anche cupe, frammentarie e drammatiche, ma le note scorrono cariche di entusiasmo, conferendo a tutto l’insieme un’immagine di “viaggio avventuroso”, grazie anche alla registrazione in analogico. Nell’esordio, anche le liriche si rifacevano allo stile italiano seventies, mettendo cioè insieme varie frasi altisonanti che sembravano essere prive di alcune “viti” di congiunzione che mettessero a loro volta assieme le parti, conferendo un senso di pseudo-intellettualità che forse ai tempi poteva anche avere un senso; stavolta i testi risultano invece meglio amalgamati e anche se Tarasconi non ha chissà quale voce potente, il suo timbro appare molto più appropriato che in passato (anche questo vuol dire crescere). Sicuramente i rimandi classici e cervellotici sono numerosi, come nella già citata “Oniromanzia…”, dove si parla di pantere, del dio Dioniso e di crocifissioni: un evidente riferimento alla tradizione orfica, vista come la base di sviluppo dei vari culti cristiani. Il nuovo bassista Dario Pessina ha costituito con il batterista Federico Bedostri una sezione ritmica molto agile e presente, sulla quale Tarasconi e la chitarrista Francesca Zanetta si sono sentiti molto più liberi di esprimersi. Proprio quest’ultima si mette finalmente in luce e suona assoli nel vero senso del termine; non solo note che si confondano nel contesto, ma delle vere e proprie porzioni soliste che sembrano debitrici di certe partiture floydiane, come in “Caligari”, brano dedicato al film espressionista di Robert Wiene "Il gabinetto del Dottor Caligari" (1920). Si suggerisce alla Zanetta, comunque, di continuare ad esercitarsi e rendere ulteriormente sciolta l’esecuzione, che a volte sembra un po’ legata. Il risultato finale sarà ancora più soddisfacente. L’originalità a tutti costi non sembra essere al momento nelle corde dei nostri (che sia un bene o un male dipende dai gusti), quindi i riferimenti sono sempre quelli che portano alle Orme, un po’ al Museo Rosenbach e soprattutto ai The Trip, anche se fin dall’iniziale “Ouverture: Obscurus fio” si è tutti concordi nel dire che stavolta c’entra anche il Banco del Muto Soccorso di “Darwin” (1972). Si potrebbe scendere ancora più nello specifico e citare un pezzo immortale come “La conquista della posizione eretta”, che pervade buona parte dello spirito di quest’album. Le partiture di synth e di pianoforte ricordano spesso quelle dei fratelli Nocenzi (riemerge la dualità: un bene o un male?), ma occorre anche riferire dell’uso dark del hammond, che rimanda ai britannici Atomic Rooster e al loro leader “maledetto” Vincent Crane.
Gli amanti di certe sonorità apprezzeranno sicuramente la varietà di “La meccanica dell’ombra” (grande pezzo, dove però la voce entra molto tardi e non proprio nel migliore dei modi), “Lo schermo di pietra” e soprattutto i venti minuti di “Ex tenebra lux”, suite finale che non poteva essere omessa da chi si ritrova concettualmente legato a determinate tradizioni musicali. Per onor di completezza, si aggiunge che molti passaggi dell’album risultano riusciti anche per gli azzeccati interventi di Rossano “Rox” Villa (trombone, fisarmonica) e Fabio Biale (violino). Di sicuro, nulla è stato lasciato al caso, a partire dall’immagine della dea Ishtar messa in copertina, vero manifesto dell’opera. Divinità babilonese derivata dall’omologa sumera Inanna, presenta nella sua natura quella oscura duplicità che ha permesso a questo lavoro di esistere: da un lato dea di amore, pietà, vegetazione, maternità… dall’altro, terrificante portatrice di guerra e tempeste. Scesa per amore negli inferi, durante il suo lutto la terra si ferma e non dà più semi. Nell’Ade verrà decapitata, per poi rinascere a nuova vita. Come si vede, un chiaro archetipo che avrebbe influenzato buona parte dei miti e delle religioni di tutto l’attuale Occidente. Insomma, di carne al fuoco ne è stata messa tanta, forse più di quella che appare. Chissà, probabilmente nella vita Tarasconi è uno di quelli che ama starsi ad ascoltare. Ma forse, durante le sue declamazioni, potrebbe anche risultare piacevole starlo a sentire. Proprio come accade in questo album, che si spera sia il passaggio verso qualcosa di ancora più grande, perché la storia non sembra affatto finita qui ed i margini di crescita ulteriore sono più che evidenti. E allora credici Emanuele, credici…
P.S.: Il batterista Federico Bedostri ha lasciato il gruppo per problemi personali ed è stato sostituito da Andrea Gardani, che compare anche nel video de “Lo schermo di pietra”.
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