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THE WRONG OBJECT After the exhibition Moonjune 2013 BEL

I fatti e gli obiettivi riguardanti questo combo belga sono, direi, noti. Si tratta di un poderoso e trasversale genere per la quasi totalità strumentale, con svariati contatti con la musica di Canterbury, con il Frank Zappa più jazz rock oriented e con la varietà multietnica progressiva tanto amata dai Gong di metà anni ’70. Non mancano nemmeno virate verso atmosfere alla Weather Report e al jazz londinese e nord europeo dello stesso periodo di riferimento.
Per questo loro quarto album in studio presentano una band quasi totalmente rigenerata rispetto alla precedente uscita. Revisione che vede confermare solo il chitarrista groupleader Michel Delville e il rientro del fantastico batterista degli esordi Laurent Delchambre. Tutto nuovo il resto del line-up, all’interno del quale troviamo il tastierista Antoine Guenet, recente acquisto anche dei conterranei Univers Zero. Musicalmente, invece, poche varianti, tanta coerenza e, alla fine, un succulento piatto tutto da gustare.
Un’ora tonda da ascoltare di filato per la girandola musicale creata, nella quale la tecnica sopraffina si unisce ad una grande inventiva e, brano su brano, non porta mai alla stanchezza. Undici le nuove proposte sonore, ma al centro una sorta di suite progressiva di quasi 17 minuti, suddivisa in tre parti, “Jungle Cow” che è davvero la summa della proposta, contiene tutto ciò che le variegate menti dei Wrong Object hanno pensato per noi. Ma il disco non è, ovviamente tutto lì: “Spanish Fly” è tutto un inseguirsi di temi Gong che si incrociano a Wyatt e sbucano in un notevole guitar solo zappiano che sembra uscito fresco da “Sleep Dirt”, brano memorabile. “Glass Cubes” vede l’ospite Susan Clyne novellare l’esperienza della Krause, aggiungendo un pizzico di melodia jazz al tutto, fino al finale doppiato da Guenet, qui anche perfettamente a suo agio alla voce. E poi ovunque saltano fuori frammenti di grandissimo spessore come l’assolo di Benoit Moerlen al vibrafono in “Yantra” o le energiche brass section dell’opener incredibilmente trascinante “Detox Gruel” o il duetto sax – clarinetto di “Stammtisch” ricco di bei contrappunti che portano il brano prima ad un caotico e intricato free form, ma che, alla stessa maniera, fanno rientrare tutto nella melodia iniziale, in maniera così lineare da rimanere a bocca aperta.
Inutile dilungarsi, il disco si mantiene sugli ottimi livelli del precedente, forse paga in maniera più evidente l’esposizione della stessa formula, ma è così alta la sua espressività da non farsene quasi accorgere. Forse l’oggetto è sbagliato, ma di certo la musica è quella giusta.



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Roberto Vanali

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