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SEVEN IMPALE |
Contrapasso |
Karisma Records |
2016 |
NOR |
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Il nuovo album del sestetto norvegese è come le erbe medicinali: da prendere a piccole dosi. Se all’inizio la misura di somministrazione è corretta, non può che fare bene, magari continuando ad usufruirne per potercisi abituare e riconoscerne gli effetti, alzando man mano il dosaggio. Altrimenti, si rischia seriamente di compromettere la propria salute. Esordienti nel 2014 con “City of the sun” (senza voler contare “Beginning/relieve”, EP pubblicato l’anno prima), già allora i giovani musicisti scandinavi erano stati felicemente segnalati per un prog duro e seventies, che aveva come numi tutelari King Crimson, Van der Graaf Generator e (in misura minore) Frank Zappa, per tacere di tutti i successivi epigoni dei nomi testé citati. “Contrapasso”, dal canto suo, sembra per certi versi una discesa nelle immagini più congestionate e congestionanti degli inferi danteschi, indurendo ancora di più il sound senza compromesso alcuno (il produttore è Iver Sandøy, quello di gruppi tipo Enslaved), avvolgendo l’ascoltatore tra la pece ed il magma; un composto ustionante, simile alle rocce nere che in copertina sembrano prendere spaventosamente vita. Situazione difficile da controllare all’inizio, con il sax distorto di Benjamin Mekki Widerøe che marchia la musica a fuoco, assieme alle tastiere di Håkon Vinje che si lasciano preferire quando sale in cattedra il bollente organo Hammond. Per quanto vi siano ben due chitarristi – Erlend Vottvik Olsen ed il cantante Stian Økland –, le sei corde sembrano immerse in questo immenso calderone denso ed incandescente, non giocando quindi un ruolo da protagoniste ma risultando comunque imprescindibili da un punto di vista ritmico. L’iniziale “Lemma”, con il basso pulsante di Tormod Fosso e delle voci corali che trasudano perdizione, va avanti con un cantato da predica dittatoriale nello stile di altre produzioni meno prog della stessa Karisma, sax che interviene con puntate lancinanti, organo ed effetti che potrebbero proiettare in altri mondi (ma tutto ciò sarà mica zeuhl?!) e la batteria di Fredrik Mekki Widerøe che deve adattarsi ai continui rallentamenti. Forse questo è il brano che rende meglio l’idea al riguardo dell’evoluzione musicale dei ragazzi di Bergen: all’inizio spiazzante, da riascoltare per comprenderlo, con una seconda parte strumentale in cui sembra che ci si rilassi, grazie ad un uso dei fiati di Zappiana memoria. La seguente “Heresy”, invece, riprende il vecchio stile dei nostri, ricordando anche altri ottimi gruppi contemporanei come Avant Garden e Trioscapes. Cantato tirato e liberatorio, con uno sfogo finale simile alla reinterpretazione degli stilemi occidentali tipica di gruppi nipponici tipo Il Berlione del primo album e (soprattutto) i Machine and the Synergetic Nuts. Stesso discorso da fare per “Inertia”, dove però si sente anche una chitarra isterica in fase solista. “Languor” parte in una maniera tanto assordante che verrebbe voglia di saltare al prossimo pezzo, ma dopo un attimo si inseriscono delle trovate dal gusto quasi iberico, prima di acquietarsi di colpo, assumere tonalità simil-fusion, riprendere velocità con suoni tecnologici e psichedelici, quindi concludere con rinnovata forza. “Ascension” è il breve interludio che ci voleva per rinfrescare la mente, prima di riprendere la claustrofobia tramite “Convulsion”, il cui nome è manifesto di quanto aspetta l’ascoltatore, con dei riff “macinanti” quasi da techno-thrash rafforzati da un pianoforte martellante, prima del consueto arresto in stile tensione lisergica. Situazione che si capovolge con “Helix”, dall’inizio quieto e serpeggiante, con un seguito urlato ed alienante, terminando però nella calma più assoluta. “Serpentstone” contiene tutti gli elementi fin qui descritti, anche se sembra guardare ad un approccio più “cosmico” e solenne, prima di concludere con la strumentale “Phoenix”. Una lunga introduzione che si dipana, prendendo forma fino all’ottavo minuto, quando il sax fa sentire il suo grido e la tensione raggiunge l’apice, prima di terminare così come il pezzo era cominciato, spiazzando ancora una volta. Lavoro difficile e da prendere a piccole dosi, si diceva. Fuori da determinati schemi, volutamente oppressivo e lapidario tipo i Mastodon di “The Czar”, con i titoli di ogni composizione formati da un’unica parola che suona sempre molto laconica. Energia da vendere, che magari non verrà compresa nella sua furia. Ma i sei musicisti hanno indubbiamente intrapreso un percorso evolutivo e non sembrano capaci di rimanere fermi sempre allo stesso punto. La prossima uscita potrebbe ancora una volta raccontarne di tutti i colori. C’è da rimanere ad ascoltare, per capire cosa saranno capaci di combinare. Nel bene e nel male.
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Michele Merenda
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