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SUBMARINE SILENCE Journey through mine Ma.Ra.Cash 2016 ITA

Amate la musica romantico-sinfonica dei Genesis e dei Camel del periodo d’oro? Stravedete per i lavori solisti di Steve Hackett? Adorate le malie acustiche di Anthony Phillips? Beh, il terzo, e nuovo, album dei Submarine Silence, dal titolo “Journey through mine”, fa sicuramente il caso vostro. Guidati sempre dal duo David Cremoni (chitarre elettriche ed acustiche) e Cristiano Roversi (tastiere varie, basso e chitarre) a cui si aggiungono per l’occasione il nuovo vocalist Guillermo Gonzales ed il batterista Emilio Pizzocoli (presente nell’album d’esordio, omonimo, di tre lustri fa), la band non fa nulla per nascondere le proprie influenze musicali, ma lo fa con gusto e personalità offrendo, nel complesso, un lavoro di grande godibilità e freschezza. Sette i brani (tre dei quali strumentali), tutti molto suggestivi ed emozionanti che, con la dovuta dose di “modernità”, fanno rivivere al meglio i delicati equilibri “cameliani” e i (troppo presto) sopiti ardori sinfonici dei 5 (e poi 4… e poi 3…) Genesis. Le composizioni (firmate da tutto il gruppo, mentre le liriche sono di Gonzales) sono dominate dalle tastiere di Roversi (Mellotron, organo, piano, synth…) e dagli importanti ornamenti delle chitarre di Cremoni così ricchi di “colore” e “calore”. Una ritmica convincente e un cantante versatile e sempre adeguato chiudono, poi, il cerchio (quasi) perfetto. “Journey through mine” forse raggiunge il suo climax compositivo proprio con la lunga title track con i continui e mai banali rimandi tastieristici al periodo “Wind & wuthering” (spesso sottovalutato nella discografia Genesis), un drumming “secco” eppur raffinato, vibranti assoli di Cremoni ed ariose e grandiose sezioni strumentali. Non manca, ciliegina sulla torta, un raffinato segmento acustico e chiudendo gli occhi per un attimo… si viaggia a ritroso nel tempo. Sarebbe comunque ingeneroso dimenticarsi dell’altrettanto valida “Five lands nightwind”, ricca di incanti acustici iniziali e di grande tensione emotiva (Camel docet?) nel lungo frammento elettrico di lodevole fattura. Senza scordarsi la brillante cavalcata strumentale di “The astrographic temple” in cui Roversi e Cremoni cadono spesso in “tentazione” con contributi dosati e veramente incisivi. Rilevante pure l’enfatico crescendo di “Black light back” ed il romanticismo tout-court di “Canova’s gypsoteque”, seducente e frizzante in tutti i suoi 8 minuti, in una miscela esplosiva tra Camel (sì… ancora loro…) e Genesis di… Hackett. Un ottimo lavoro, dunque, questo “Journey through mine”, che si fa apprezzare in tutti i suoi 60 minuti di durata senza praticamente sbavatura alcuna. Detto della splendida cover ad opera di Ed Unitsky e del logo (da sempre) di Paul Whitehead, non possiamo che rammaricarci per l’assenza di un libretto (anche minimo) che potesse contenere le liriche di Guillermo Gonzales. Un peccato veniale che ovviamente nulla toglie al valore dell’opera che è veramente di alto profilo artistico.



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Valentino Butti

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