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DAVE KERZNER |
Static |
autoprod. |
2017 |
USA |
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Il tastierista Dave Kerzner sarà probabilmente conosciuto tra le nuove leve degli ascoltatori per aver fondato i Sound of Contact assieme a Simon Collins, figlio del ben più famoso Phil (il quale non necessita certo di ulteriori presentazioni). Dopo aver cominciato a suonare il pianoforte ancora bambino, Kerzner si è poi avvicinato ad altri strumenti, diventando così un polistrumentista vero e proprio. Le tastiere rimangono comunque il suo strumento principale e l’album in questione, pur non strabordando di chissà quali virtuosismi, suona esattamente come quello di un tastierista prog. Concetto difficile da spiegare, ma l’approccio sinfonico, anche fin troppo elegante e volutamente teatrale è tipico di un determinato tipo di strumentista, nel bene e nel male. “Static” è il ritorno a proprio nome sulle scene, dopo il debutto “New world” che è stato proposto e riproposto nell’arco di un paio di anni in varie salse: prima l’uscita ufficiale (2014), poi la “deluxe edition” (2015), dopo la versione strumentale (2016), senza dimenticare la trasposizione dal vivo (sempre nel 2016). Il secondo lavoro di Kerzner risente delle tante collaborazioni svolte in carriera, che vanno da Keith Emerson a John Wetton, da Peter Gabriel ad Alan Parson, senza dimenticare l’onnipresente Steven Wilson. Essendo questa una sorta “prog-rock opera”, l’autore pone l’accento su quella teatralità sopra menzionata, che anche sfruttando un umorismo decisamente sarcastico attenziona vizi come l’egocentrismo o la gelosia, mettendo in scena una società appiattita nel caos tecnologico che ne articola ormai l’esistenza. Le immagini di copertina e del libretto sono curate da Ed Unitsky, un nome sempre più noto nel settore delle odierne copertine prog (Tomas Bodin, Flower Kings, Moongarden, ecc…), che caratterizzando dei soggetti con il televisore al posto della testa conferma il sarcasmo di cui sopra. Da un punto di vista musicale, c’è da segnalare “Hypocrites”, il cui titolo è emblematico; soprattutto all’inizio molto Crimson-oriented, con la voce solista di Kerzner che ricorda l’epoca psichedelica dei Pink Floyd, qualcosa dei Genesis di “The lamb…”, aggiungendo delle fasi soliste non particolarmente ad effetto ma comunque intense. È forse questo il momento migliore di un album abbastanza omogeneo, che nelle sue impalcature sceniche suona molto neo-prog. Certo, si tratta di un lavoro autoprodotto, quindi non si possono che fare i complimenti per quello che risulta nel suo insieme un buon prodotto, ben allestito e ben registrato, anche se per qualcuno potrebbe sapere un po’ di posticcio. Ci saranno schiere di adoratori di questa uscita, soprattutto tra chi ama i cloni dei cloni delle cosiddette band di prog-rock romantico, ma sarebbe meglio apprezzare soprattutto la prima parte della lunga suite finale, “The Carnival of Modern Life”, in cui si avverte la consistenza di un umorismo tagliente. Da citare la title-track, ballad “esistenzialista” (rende l’idea dell’atmosfera da animo desolato scandita dal pianoforte malinconico?) concepita già ai tempi del debutto solista dove la batteria è suonata da Nick Mason proprio dei ‘Floyd, le cui fasi sono state registrate dal succitato Alan Parson. E sempre continuando con gli ospiti, c’è “Dirty Soap Box” in cui Steve Hackett suona alcune partiture di chitarra, ricambiando così il favore delle collaborazioni di cui si parlava prima, assieme a Nick D’Virgilio (ex Spock’s Beard ed oggi nei Big Big Train) alla batteria. Un pezzo dai riff e dalle atmosfere pesanti, in cui vi sono magistrati che fumano crack e strade dove “cane mangia cane” per un po’ di soldi; la componente Genesis dell’epoca Gabriel è sicuramente presente, anche se viene usata come ingrediente per un brano che tende ad essere quasi metal, con solismi in stile neo-classico. “Reckless”, dove la chitarra acustica viene suonata con decisione dallo stesso Kerzner, potrebbe ricordare gli ultimi Screaming Trees e chissà quanti altri gruppi rock di passaggio (non che Mark Lanegan e soci lo fossero...), che concludevano le strofe con toni dissonanti, chiudendo con l’intreccio veloce delle chitarre di Fernando Perdomo e Randy McStine. Piena di stereotipi già sentiti è anche “Chain Reaction”, anche se l’ascolto si rivela molto piacevole, così come “Trust” potrebbe essere una ballata strappalacrime al pianoforte e al violoncello eseguita a suo tempo da Phil Collins ma oggi brillantemente attualizzata. E a proposito di ciò, “Millennium Man” ricorda l’allegria dei Supertramp, comunque impostata con delle proprie connotazioni, preludio di quell’atmosfera circense della suite “The Carnival…”. I brani dell’opera sono in realtà quattordici e sembra di aver ascoltato un album doppio, perché la mole di materiale è tanta, mettendo parecchia carne sul fuoco. Lo è stato detto prima: saranno in tanti a glorificare questa uscita, ma non è esattamente tutto oro quel che luccica. C’è sicuramente tanta professionalità, impegno (e non potrebbe essere altrimenti), ma il prodotto è rivolto a chi apprezza gli emulatori ancor più delle fonti primarie di riferimento, senza però bissarne lo spessore storico. Ci sono comunque dei momenti buoni, che sicuramente si fanno apprezzare.
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Michele Merenda
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