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PETER BANKS |
The Self-Contained trilogy |
Cherry Red Records |
2018 |
UK |
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Strana, particolare, per certi versi triste, l’avventura musicale e di vita di Peter Banks. Musicista di grande talento, con buone capacità compositive e buone intuizioni innovative. Inizia la sua carriera, dopo quel po’ di gavetta a livello locale, con un colpo niente male, quello degli Yes degli esordi. I primi due dischi e poi la sostituzione con Steve Howe. Tagliando corto, visto che chi arriva qui certamente conoscerà i particolari, Peter Banks avvia una carriera che parte da un buon disco solista, prosegue un’ottima band i The Flash con la quale incide tre dischi e qualche comparsata qui e là in una prima metà degli anni ’70, che tutto sommato sembravano avviarsi favorevolmente per l’autore. Qualcosa va poi storto e per la seconda metà dei ’70, tutti gli ’80 e una parte dei ’90 Peter Banks non batte un chiodo valido e degno delle sue capacità. Si riaffaccia nel mercato discografico nel 1994, facendo uscire i tre dischi, che qui troviamo riuniti in un cofanetto, ristampati con scalette originali e suoni ripuliti. Vista la difficoltà sempre crescente di reperire questi lavori, pare cosa buona che li abbiano voluti ristampare, sul cofanetto unico avrei qualche remora, ma in effetti potrebbe essere stata una scelta azzeccata. Infatti diverse cose accomunano i tre dischi. Innanzitutto il padrone di casa fa tutto da solo, sempre, tranne qualche piccolo aiuto tastieristico da parte di Gerald Goff. Questo evidenzia una certa propensione all’isolamento, al lavoro in solitaria e ne è prova la frase che a caratteri cubitali troneggia su due intere pagine del booklet: “Sometimes there is consolation in isolation”. Poi, forse per il periodo di uscita piuttosto ravvicinato, c’è una forte omogeneità nei suoni, nelle scelte ritmiche e nelle tipologie costruttive dei brani. Il primo dei tre lavori, “Istinct” del 1994 si presenta come un album gioioso, aperto. Ovviamente la predominanza chitarristica è palese, ma c’è un gran lavoro percussivo, seppur le ritmiche tendono ad essere snelle e rockeggianti. Tanta tecnica ma senza sfoggio inutile, non sembra uscire la voglia di dimostrare che poteva essere più di quel che è stato: l’umiltà credo sia una prerogativa di Banks. Notevole per composizione e sviluppo “All points south”, spiccano, anche per le loro trame vagamente jazz “Shortcoming” e “Codeblue”, musiche che potrebbero tranquillamente essere inserite in un film di livello, se qualcuno gliele avesse commissionate. Un po’ più leggere, seppur sempre piacevoli, “Angels” dall’andazzo vagamente Police e “Swamp report”, dal tocco funky, ma con un grande esercizio di chitarra lungo e intrigante. Il secondo disco, “Self-contained” del 1995, appare un po’ più sperimentale, con qualche slancio elettronico e una lunga suite con oltre 24 minuti suddivisi in otto movimenti. Suoni più artificiali e anche le percussioni rese secche e timbricamente più anonime da filtrature elettroniche. Interessante, nella prima parte, è “Massive trouser clearance” molto varia e altalenante tra momenti ritmici e altri più nervosi. Piacevolissimo l’esercizio di “Lost days” breve sintesi elettroacustica fatta di arpeggi filtratissimi con sottofondo di Gibson semiacustica che ci riporta tanto indietro nel tempo. Buona anche la composta e lunga “Clues” dal sapore jazz rock e dilatata in un assolo infinito. La seconda parte è quasi interamente occupata alla lunghissima “It’s all Greek for me”, non si tratta di una suite vera e propria, ma di brani concatenati a tema comune, molto interessanti in alcune parti, un po’ stancanti in altre. Non manca un po’ di confusione, con alcune sonorità indiane e orientali, frasi citate in italiano e inglese, ma complessivamente si fa ascoltare con piacere e mette in evidenza, come sempre, le ottime e trascinanti qualità chitarristiche di Banks. Ancora interessante è il terzo disco “Reduction” del 1997. Paga, rispetto ai due precedenti una certa ripetitività dei temi, già ampiamente sviscerati nei precedenti e qui riproposti senza troppi ripensamenti. Qualche trama maggiormente fusion con stacchi e groove tipicamente funky, qualche dose di elettronica in alternanza, qualche momento più sperimentale contrapposto ad altri decisamente più immediati nell’approccio musicale. Si evidenziano comunque brani di buona scrittura come “Fade to Blue” e “As night fall”. Molto particolare nello sviluppo aggressivo di derivazione quasi punk/jazz è "Pirate's Pleasure". Rimangono in evidenza suoni molto sintetici e tipicamente del periodo, con strumentazioni elettriche dominate dalla chitarra synth della Casio e i riff volutamente grezzi e aggrovigliati di "Dirty Little Secret” danno un buon esempio di questo stile. Con questi tre lavori, che si ascoltano ancora con molto piacere, Banks ha dimostrato tutta la sua bravura tecnica e soprattutto compositiva. Ha dimostrato in maniera evidente l’enorme sottovalutazione delle sue capacità e come, per problemi che forse non saranno mai noti, lo spazio che si è ritagliato nel mondo del progressive, sia stato davvero poca cosa, rispetto a quanto avrebbe meritato. Questa trilogia, per certi versi leggibile come un unico lavoro omogeneo, suona come un piacevole, divertente e doveroso omaggio affinché questo artista non cada nel totale dimenticatoio.
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Roberto Vanali
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