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TIM BURNESS |
Interconnected |
Expanding Consciousness |
2018 |
UK |
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Secondo disco in due anni per il polistrumentista britannico Tim Burness, che mai aveva dato un seguito così immediato ad una sua uscita in un percorso discografico che non possiamo certo definire ricco numericamente. Questa figura un po’ minore del panorama new-prog inglese non è mai stata alla ribalta delle cronache fin dai suoi esordi con i Burnessence negli anni ’80 e con il suo primo episodio da solista del 1990 e solo nel nuovo secolo è riuscito a dare un po’ di maggiore continuità alla sua carriera. Anche se non stiamo parlando di un personaggio che può essere considerato di pari livello ai suoi “coetanei” Marillion, IQ, Pendragon, Twelfth Night e compagni si tratta comunque di un artista autore di lavori dignitosi che possono attirare una cerchia ben precisa degli appassionati di prog. Il nuovo parto “Interconnected”, costituito da undici brani di durata abbastanza contenuta, mostra qualità e limiti di Burness. Da una parte ci sono svariati momenti che mostrano sicuramente una buonissima ispirazione. Le composizioni più vicine ad un new-prog attualizzato e arricchito di potenza, come “I am afraid (Saturn conjunct Pluto)”, “Freedom”, “This is the space”, “Ants”, soprattutto quando conditi da una venatura dark e malinconica, lasciano belle sensazioni. Valida anche “Beautiful world” (la composizione più lunga del lotto con i suoi sette minuti) con la sua forte influenza floydiana, con Burness che con la chitarra si rifà nettamente ai timbri e al solismo di David Gilmour. Poche, invece, le deviazioni pop da salvare; anzi, forse l’unica davvero interessante è la stravagante “Dear stranger”, apparentemente scanzonata, ma costruita in maniera molto particolare. Pollice verso, quindi, per l’opener “Electric energy”, in cui i suoni sintetici sembrano spingere verso il synth pop tanto in voga negli anni ’80, per “Making it up”, un po’ troppo monocorde, o per lo strano limbo di pop-prog in cui versa “Still mumbling”, che non è né carne né pesce e per la conclusiva e allegra “One more time”, che sembra fare il verso ai primi Beatles con scarso successo. Tutti i brani portano la firma di Burness, che è coadiuvato comunque da musicisti che sanno il fatto loro, a partire dal batterista Fudge Smith e proseguendo con il bassista Keith Hastings e il bravissimo tastierista Monty Oxymoron, tutti confermati dal precedente album. Tra new-prog, gli Arena di “The visitor” (i migliori, a parer di chi scrive), pop diretto oppure stralunato e contaminazioni di diversa natura è proprio la varietà stilistica ad essere forse il punto interrogativo più grande per “Interconnected”. In alcuni momenti il disco sembra decollare e prendere l’ascoltatore, ma ci sono cadute di tono che non permettono di dare, alla fine, un giudizio completamente positivo.
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Peppe Di Spirito
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