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Forse i Seven Steps To The Green Door sono oggi la band di punta di quel movimento prog tedesco legato alla casa discografica Progressive Promotion Records. Con “The?Lie” arrivano nel 2019 al loro quinto album presentando un concept che è la seconda parte di “The?Book”, pubblicato bel 2011. Per l’occasione hanno voluto fare le cose in grande stile e le due figure cardine del gruppo, il batterista Ulf Renhardt e il polistrumentista Marek Arnold, hanno chiamato all’appello un nugolo di collaboratori per allargare il parco strumenti e le presenze alle parti vocali per l’interpretazione dei vari personaggi dell’opera. Il cantante Pete Jones, reduce dalle esperienze con Camel, Tiger Moth Tales e Francis Dunnery, il violinista Steve Unruh, fido collaboratore di Marco Bernard alias the Samurai of Prog e il chitarrista Luke Machine, già impegnato, tra gli altri, con Maschine e The Tangent, sono forse i pezzi più pregiati coinvolti. Per raccontare questa storia incentrata sul fanatismo religioso, con una “chiesa” immaginaria guidata da dei “padri” che agiscono in nome di Dio, i Seven Steps To The Green Door offrono una buonissima prova presentando un rock sinfonico di discreta qualità. Dopo un’introduzione recitata, la band si cimenta in una serie di pezzi abbastanza omogenei, praticamente legati insieme l’un latro, quasi a formare una lunga suite di cinquantatré minuti e mezzo, denotando un momento di buonissima ispirazione. Anche in tracce sviluppate in 3-4 minuti riescono a mettere in mostra un prog in cui sono abbinati feeling e tecnica. Questa voglia di essere immediati, soprattutto con le parti vocali, e di lanciarsi in strumentali mozzafiato in cui chitarre, tastiere, sax e violino si inseguono e si incrociano è una costante di “The? Lie”. Qualche momento meno messo a fuoco c’è, come “A price to pray – II”, di base prog metal un po’ banale, ma sollevato da un ottimo assolo di violino, o qualche stacco qua e là talmente brusco da sembrare forzato. Ma nel complesso il disco scorre bene e il crescendo delle tre tracce conclusive (quelle col minutaggio più elevato del lotto), può rappresentare anche una piccola apoteosi per chi si ciba in continuità del progressive rock più orientato verso le sponde sinfoniche e romantiche. Anche la presentazione “materiale” è in bello stile, con un digipack elegante apribile in tre parti accompagnato da un vero e proprio libretto, dalle dimensioni di un piccolo quaderno, con il quale è possibile leggere testi e informazioni. Molte più luci che ombre, quindi, in questo disco che vede le proprie influenze a cavallo tra gli anni ’70 e ’90 (Camel, Van der Graaf Generator, Marillion, Quidam), ma suonato con piglio moderno. L’eccessiva voglia di essere seri e perfettini continua a rappresentare al tempo stesso pregio e difetto dei Seven Steps To The Green Door, ma non si può negare che i momenti strumentali in cui si lanciano Reinhardt, Arnold e compagni sono un punto di grande forza che lascia in questa occasione più di un brivido.
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