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FLAMING ROW The pure shine Progressive Promotion Records 2019 GER

Il revival dell’opera rock, o meglio, del concept album in cui l’“intestatario” del progetto chiama a sé un cast di cantanti e una pletora di strumentisti ospiti, pare essere più vivo che mai nell’Europa continentale: se Ayreon, ossia Arjen Anthony Lucassen è l’alfiere olandese del genere, i tedeschi (di Hannover) Flaming Row, qui alla terza prova, paiono avere tutti i numeri per candidarsi a rappresentanti del genere per il proprio paese. La stessa etichetta teutonica Progressive Promotion (che in una decina d’anni ha attirato a sé un roster di tutto rispetto) è in prima fila nel… “promuovere” progetti simili: pensiamo a Karibow o Seven Steps To The Green Door, solo per limitarci a due esempi. Basata attorno alla figura del polistrumentista Martin Schnella (voce, chitarre, basso), dopo due buoni album impreziositi dalla voce femminile di Kiri Geile, la band si raggruppa di nuovo attorno alle già note figure di Marek Arnold (tastiere e sax) e Niklas Kahl (batteria, che si alterna con Jimmy Keegan ex-Spock’s Beard, dalle fila dei quali proviene anche Dave Meros, al basso in due brani), ma vede al microfono una nuova presenza, quella di Melanie Mau già partner di Martin nel progetto battezzato coi loro nomi, che pareva aver soppiantato l’entità stessa dei Flaming Row.
È durata infatti ben sei anni la gestazione di questo lavoro, ispirato alla serie di romanzi “The dark tower”di Stephen King, o meglio, alla sceneggiatura del film che ne fu tratto in seguito, dovendo per ragioni di sintesi concentrare in 70 minuti di musica una storia (una curiosa fusione di fantasy e western che contempla un villain dall’appellativo di “Crimson King” …) sviluppata dal prolifico autore statunitense in otto volumi e oltre un milione di parole!L’album si compone di sei tracce, quattro delle quali, di durata piuttosto estesa, suddivise a loro volta in movimenti. Il secondo CD incluso contiene un completo mix strumentale dell’opera, per cui non sarebbe corretto parlare di album doppio.
La musica dei Flaming Row non è facilmente inquadrabile in un genere ben definito (se non nella “formula” di cui ho già parlato) e già questo è un buon punto di partenza: in un contesto di base ben radicato un un progressive rock melodico e spesso sinfonico (si fa anche un esteso utilizzo di una sezione d’archi, diretta dai fratelli Brenton, già con la Neal Morse Band) si inseriscono innesti prog-metal (non troppi, a dire il vero, e questo lo differenzia dai lavori dei citati Ayreon o da un poco digeribile minestrone come il recente “The astonishing” dei Dream Theater, rendendolo più accostabile alle opere rock di Clive Nolan/Caamora), sprazzi di fusione con il folk celtico (grazie all’ospite Jens Kommink e i suoi tin whistle, cornamuse irlandesi e mandolini), e ampie concessioni ai vocalist (oltre alle voci di Martin e Melanie, troviamo altri otto cantanti, di estrazione spesso prog-metal, come Glynn Morgan dei Threshold, Johann Hallgren dei Pain of Salvation e Gary Wehrkamp degli Shadow Gallery) cosa che ha l’effetto di spostare un po’ il baricentro verso il musical theatre. Il tutto, per nostra fortuna, senza risultare troppo pomposo o sbilanciato verso un’attitudine epica che fin troppo spesso ha finito per inficiare progetti con intenzioni simili.
I brani, nel loro labirintico procedere, danno infine l’impressione di costituire un’artificiosa separazione (o meglio, atti di un’opera delimitati in base a distinti episodi della narrazione) in un unico flusso di musica costantemente mutevole, con l’utilizzo di temi ricorrenti che forniscono all’ascoltatore un appiglio per orientarsi all’interno di tale mare di suoni. Il passaggio da una sezione all’altra risente poi dell’approccio “da palcoscenico” già descritto, dando l’impressione di una scrittura un po’ calcolata ed artificiosa, pur nella sua formale ineccepibilità. Questa non vuole essere una vera critica, ma avendo la band utilizzato lo stesso “modus componendi” nella stesura dei brani, non risulta troppo utile descriverli singolarmente. Ciò nonostante, mi piace segnalare la sezione contrappuntistica in stile Gentle Giant che conclude “A tower in the clouds”, gli influssi oldfieldiani percepibili a più riprese nella mini-suite “Jake’s destiny”, la voce cristallina della Mau, il tocco raffinato delle chitarre elettriche ed acustiche di Schnella, gli interventi orchestrali a coronamento della conclusiva “The Gunslinger’s creed”, ma non posso scrollarmi del tutto di dosso la sensazione di ascoltare qualcosa di studiato a tavolino, soprattutto tenendo conto che la classe dei musicisti e dei vocalist avrebbe potuto portare a risultati emozionalmente più coinvolgenti.
L’ascolto della versione strumentale, godibilissima, rivela un’altra faccia dell’opera, che svincolata dal cast dei “personaggi” assume ancor più marcatamente la forma di un’unica suite classicheggiante.
Ammetto di non avere familiarità con i due album precedenti, non possiedo quindi una possibile pietra di paragone, posso però affermare che Martin & co. raggiungono con “The pure shine” un’invidiabile perfezione formale, una professionalità che si rispecchia anche nella qualità di registrazione e nel mix delle numerosissime “voci” presenti; chi è interessato a questo tipo di proposta dovrebbe oramai averlo intuito, stessa cosa dicasi per chi faticherebbe ad andare oltre il primo brano.



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Mauro Ranchicchio

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