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ALAN SIMON |
Excalibur: the ladies of the lake |
Babaika Productions |
2018 |
FRA |
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Anche per l’infaticabile menestrello bretone, recentemente transitato in Italia con il suo spettacolo “The Celtic rock opera”, giunge il momento di ricapitolare la densa carriera con una compilation; in realtà il primo passo in questa direzione fu il doppio album “Songwriter”, limitato a 500 copie, con cui Simon nel 2016 ripercorreva ben 35 anni di composizioni, ponendo particolare enfasi sulleinnumerevoli collaborazioni (trovavamo i fratelli Décamps, i Tri Yann, Alan Parsons, Jon Anderson, Martin Barre, John Wetton, Roger Hodgson, membri di Moody Blues e Fairport Convention, solo per citare alcuni dei nomi più noti nel nostro ambiente). Come già suggerito dal titolo, questa seconda compilation – con una copertina ispirata all’opera di Alphonse Mucha – si focalizza sulla saga di Excalibur, cui Simon ha dedicato quattro capitoli nell’arco di vent’anni (1998-2017) e in particolare sulle voci femminili che hanno impreziosito i lavori, e qui si parla davvero di alcune tra le vocalist che hanno fatto la storia del folk-rock e non solo. Ad arricchire la tracklist, alcuni brani tratti invece dall’opera rock “Tristan & Yseult”, pubblicata nel 2014, che si inseriscono perfettamente nel contesto pur non essendo inquadrati nella mitologia arturiana. Passando in rassegna i brani raggruppandoli per interprete, sono affidate a Moya Brennan (Clannad) l’atmosferica, orchestrale “The origins”, perfetta per introdurci nel mondo incantato di Alan; “Calling for you”, che potrebbe essere il singolo dell’album, per così dire, la prima delle tracce con indubbio potenziale commerciale, ritmata, in stile pop-rock con influenze folk ed un refrain che meriterebbe la “classifica”; infine “Silver moon”: lenta, misteriosa e cantata quasi in un sussurro, in cui timidamente emergono una rara chitarra elettrica ed il violino di Louis-Marie Seveno. “Secret garden”, è affidata a Maddy Prior (Steeleye Span), la cui voce cristallina esalta una melodia struggente, evocativa, sostenuta da chitarra acustica e low whistle. “The last lament of a fairy” può vantare una delle prestazioni vocali più emozionanti dell’album, quasi commovente nell’afflizione che il giovane soprano e arpista australiana (di origine gallese) Siobhan Owen trasmette al lamento della fata in questione, raggiungendo vette “elfiche” del pentagramma, cui segue, mantenendo le stesse atmosfere, “There is someone”; “Yseult”, orchestrale, cinematografica, con un’interpretazione vocale ancora una volta da pelle d’oca; infine le due ballate per voce, piano ed archi “A prayer for my lover” e “Dreaming again” che confermano Siobhan come la vera “star” del disco, malgrado la presenza di colleghe assai più blasonate.“The girl & the demon” è un brano più intimistico affidato alla folksinger irlandese Karan Casey (già nei Solas), accompagnata da una concertina, mentre “Skye”, quasi ipnotica con i suoi archi e le sue cornamuse, è affidata alla fragile voce di Michèle Gaurin (Kohann). La cantante dei Pentangle, Jacqui McShee, ci presenta la ballata folk celtica “Sacrifice” con gli interventi d’arpa dell’altro ospite celebre Andreas Vollenweider, sfociando in un finale rock elettrico forse inaspettato. “Morningsong”, interpretata dalla vocalist canadese Nikki Matheson, ha un respiro più mainstream, pur mantenendo caratteristiche legate alla tradizione; potrebbe quasi essere uno dei brani più brevi che resero noto Mike Oldfield al grande pubblico trentacinque anni fa; qui troviamo un’altra nostra vecchia conoscenza alle percussioni: Gerry Conway (Jethro Tull, Cat Stevens, etc.). “The passion” è ballata un po’ sempliciotta e ripetitiva interpretata con inflessione quasi teatrale da Sonja Kristina, mitica vocalist dei Curved Air, mentre la chiusura spetta a “Dun Angus”, brano puramente elegiaco con gran dispiego di cornamuse, in cui il soprano spagnolo Maite Itoiz ha l’occasione di deliziarci con i suoi virtuosismi vocali. Premettendo che una raccolta assemblata con questi criteri può rappresentare soltanto uno dei molteplici aspetti compositivi di cui Alan Simon ha dato prova nell’arco di una discografia di tutto rispetto (e di livello qualitativo eccelso), mi sento di consigliare l’acquisto a chi non avesse intenzione di esplorare in dettaglio almeno i quattro capitoli dell’opera “Excalibur” ed ovviamente a chi possiede una certa predilezione per le voci femminili in un contesto legato alla tradizione celtica rivisitata in chiave moderna.
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Mauro Ranchicchio
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