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UBI MAIOR |
Bestie, uomini e dei |
AMS Records |
2020 |
ITA |
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Che c’è di meglio che festeggiare i venti anni dalla fondazione (il primo album, “Nostos” è, invece, del 2005) regalandosi e regalandoci un nuovo lavoro? Devono averla pensata così i cinque Ubi Maior nel pubblicare “Bestie, uomini e dei”, quarta release di una carriera non molto prolifica (anche se gli standard attuali non possono certo essere quelli di una volta…) ma di sicura qualità. Della formazione di “Nostos” sono rimasti il cantante Mario Moi (pure tromba e violino), il tastierista Gabriele Manzini (per l’occasione pure al flauto) ed il batterista Alessandro Di Caprio. Da “Incanti biomeccanici” si era aggiunta Marcella Arganese alla chitarra elettrica, mentre con “Bestie…” Abbiamo l’ingresso di Gianmaria Giardino al basso in vece di Gualtieri Gorreri. Avevamo lasciato la band con “Incanti biomeccanici” del 2015, composto da due lunghe suite e da altri due brani sempre intorno ai dieci minuti, la ritroviamo ora in versione più concisa con sei brani (il più lungo dei quali sfiora i dieci minuti) per quarantacinque minuti di durata complessiva ed una “sintesi” compositiva convincente in quasi ogni composizione. Un album legato da un fil rouge rappresentato dal “mistero” nel senso più ampio del termine: figure arcane, persone “diverse”, animali di cui si favoleggia l’esistenza, mostri assetati di sangue… Ogni brano, oltre ad essere accompagnato dalle liriche, presenta brevi note esplicative circa la storia che si andrà a raccontare. In un album di valore pressoché omogeneo, spiccano due composizioni su tutte: lo strumentale “Nessie” e la title track posta in coda alla raccolta. La prima, dopo un bell’inizio aggressivo in cui tutti gli strumenti offrono il loro contributo, si muove su coordinate quasi fusion, con la tromba di Moi a “danzare” sopra tutti, assecondata dalla chitarra della Arganese per gli inserti più heavy e dallo Hammond di Manzini. Territori relativamente nuovi per il gruppo ma affrontati con cura e gusto, tanto che ci piacerebbe fossero esplorati con ancora maggiore convinzione nel prossimo futuro. Le ritmiche spezzettate ed ulteriori ricami di synth abbinati ai “graffi” dell’elettrica chiudono un brano di altissimo livello. La title track, che affronta la vicenda di Teseo ed il Minotauro, ha invece un convincente impatto lirico, con Moi molto “presente”al microfono, buoni spunti della sei corde di Marcella Arganese e Manzini che si lascia coinvolgere con “solos” tra lo heavy ed il più romantico e rassicurante new prog. Eccellenti anche gli intermezzi acustici tra arpeggi di chitarra, flauto e piano in cui si inserisce il cantato soffuso di Moi. L’etereo e dilatato finale è la ciliegina sulla torta a coronare una delle migliori composizioni mai prodotte dal gruppo. Se questi due brani rappresentano la punta dell’iceberg, anche le altre quattro rimanenti composizioni non deludono le aspettative. “Nero notte”, nello specifico il cantato di Moi risulta un po’ forzato e vicino ai suoi limiti, è un bel new prog agile che si impreziosisce non poco grazie agli inserti di violino dello stesso cantante. “Misteri di Tessaglia” esordisce in modo molto delicato con piano, voce e violino ad accarezzare il tutto. La band comincia poi a mostrare i muscoli con una ritmica serrata (il duo Giardino/Di Caprio) che anticipa il “solo” ficcante della Arganese e poi di Manzini. Il brano spicca poi il volo sul finale con la voce di Moi e la chitarra a chiudere. Un accentuato lavoro percussivo caratterizza le prime battute di “Wendigo” (un essere malvagio della mitologia algonchina) che, malgrado un buon interplay violino/tastiere, non decolla appieno dal punto di vista melodico e risultando, nel contempo, eccessivamente “verbosa”. Un piccolo inciampo, diciamo. “Fabula sirenis” è un gioiellino particolare: il cantato in falsetto di Moi, a dimostrazione di doti non comuni, aperture sinfoniche che fanno molto new prog, cosi come gli interventi dell’elettrica, pause ad effetto e pronte e stuzzicanti risalite strumentali. Davvero bello. Abbiamo, dunque, una prova davvero convincente da parte della band milanese che ha saputo, mantenendo integra l’anima delle origini, realizzare un album di “canzoni”, molto ricche ed articolate, ma al tempo stesso rendendole fruibili e non “cervellotiche”; perché, se nelle suite ci si può permettere ogni tipo di “avventura” (sovente allungando inevitabilmente il “brodo”), nei pezzi più concisi bisogna subito focalizzare gli interventi ed essere immediatamente incisivi nella proposta, il che non sempre è di facile realizzazione. La band si dimostra, però matura ad ogni soluzione e piano piano si sta ritagliando uno spazio importante nel panorama “progressivo” italiano. Bravi.
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Valentino Butti
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