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KORNMO Fimbulvinter Apollon Records 2021 NOR

Secondo la mitologia norrena il Fimbulvetr o Fimbulvinter è uno dei segni che preannunceranno la venuta del Ragnarök, la battaglia finale fra le potenze della luce e quelle delle tenebre in seguito alla quale il mondo verrà distrutto e quindi rigenerato. Questa parola significa letteralmente “terribile inverno” ed indica una lunga era glaciale. La cupa sensazione di un inverno senza fine ed i riferimenti ricchi alla tradizione nordica permeano a tutto spessore questo solido concept album, un ampio arazzo di Prog sinfonico dai riflessi folk ben definiti e dalle melodie imponenti ed oscure.
“Fimbulvinter” è il terzo concept album dei Kornmo, trio di Trondheim nato dalle ceneri dei Morild grazie alla collaborazione fra Odd-Roar Bakken (chitarre e tastiere) e Nils Larsen (basso), ai quali si è aggiunto il batterista J. R. Larsen. Rispetto a “Svartisen” (2017) e “Vandring” (2019) il nuovo lavoro è più solenne, maturo e malinconico. Le forze naturali che hanno plasmato la Norvegia durante l’era glaciale sembrano aver forgiato anche i suggestivi temi melodici di questo disco.
L’opera si compone di 5 lunghe tracce che hanno una durata complessiva di circa 70 minuti. “Fimbulvinter”, con i suoi 8 minuti, apre le danze e ci conduce nel cuore di un inverno senza fine. La forma è quella di una tenue ballad dalle nuance sinfoniche, con arpeggi gentili e deliziose colorazioni tastieristiche fra cui spiccano i suoni eleganti del Minimoog. Le cadenze sono lente, come il passo incerto di chi si addentra in un candido ed immobile bosco innevato. La scelta dei registri tastieristici è accurata ed impreziosisce melodie distese e sognanti, quasi Cameliane, mentre l’organo Hammond si porta sullo sfondo avvolgendo lo scenario musicale come un soffice manto. L’architettura di questi brani è semplice ma ben articolata, adatta a creare immagini nella mente di chi ascolta e scandita dalla successione di tante e diverse scene sonore.
“Jutulhogget”, siamo al secondo brano, è il nome di un canyon nell’Innlandet, una contea norvegese nella zona centrale del paese. Si tratta del più grande canyon del nord Europa formatosi nel corso dell’ultima era glaciale, 10.000 anni fa. Nel folklore norvegese si pensava che fosse nato dal combattimento di due Jötunns, creature antropomorfe dotate di una forza sovrumana, descritte talvolta come nemiche degli dei. Una sensazione di grandiosità si respira fra le note di questo brano che incede in modo solenne, seguendo percorsi ritmici lenti, talvolta spezzati da improvvisi guizzi sinfonici. Riferimenti li troviamo verso gli svedesi Kebnekaise, per le contaminazioni folk ed lo stretto legame alla grandiosità della natura.
“Dovre Faller” richiama un’espressione norvegese che significa “fino alla fine dei tempi”. Nella costituzione norvegese i padri fondatori fanno riferimento alla fine dei tempi come termine dell’unità della nazione e della lealtà. Questa aura di eternità e di grandiosità si respira in questa traccia lunga e maestosa (19 minuti), dominata da tastiere imponenti e divisa in tre movimenti. “Skandes”, le montagne della Scandinavia si trasformeranno col tempo in pianure grazie alla lunga e potente azione delle forze geologiche e anche la montagna più alta, “Snohetta”, col suo cappuccio di neve, giungerà alla sua ultima danza. Questa visione drammatica ed impressionante emerge grazie ai contrappunti e ai riff ruvidi che caratterizzano la porzione centrale della suite ma anche nel finale maestoso che ricorda molto alcuni dei paesaggi sonori più belli di Björn Johansson, con splendide colorazioni di Mellotron, organo e registri di archi.
“Kjempene våkner”, il “risveglio dei giganti” che fa riferimento al ritorno di grandi creature come i Mammut con lo scioglimento dei ghiacci, è la seconda suite di questo disco e tocca addirittura i 26 minuti di durata. La successione dei vari movimenti è piuttosto monolitica ma questa sorta di pesantezza rende ragione del tema narrativo. Ritroviamo elementi sonori che risulteranno familiari a chi ama un certo tipo di prog nordico che in questo caso assume un impronta folk molto vivace e rustica.
“Mega annum” è l’ultimo atto dell’opera e si riferisce ad un’espressione in lingua latina che significa “milioni di anni”. Viene scelta anche in questo caso una traccia molto lunga (10 minuti) a dare l’idea dell’importanza dell’azione del tempo visto nella lunga prospettiva delle ere geologiche. Il brano si snoda morbido con progressioni lente e cadenzate, in cui immergersi completamente, portandoci con gentilezza alla fine di questo disco bello e coerente che si lascia ascoltare dall’inizio alla fine senza momenti di stanchezza. Forse non troveremo vette artistiche di cui non potremmo fare a meno o momenti sublimi da ricordare per l’eternità ma al di là di certi tratti ruvidi si tratta di un disco incredibilmente piacevole soprattutto per chi ama certe sonorità nordiche e per questo non lo sottovaluterei di certo.



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Jessica Attene

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